Golpe MaduroIn Venezuela ormai è il caos completo, ma almeno Putin e i grillini hanno perso

La manovra politica di non far entrare Guaidò all’Assemblea Nazionale, e di puntare su una finta opposizione di regime, è stata suggerita dal Cremlino (e avallata dai Cinque stelle), ma era cosi estrema da aver scontentato anche i governi della sinistra latinoamericana

Yuri CORTEZ / AFP

È stata ispirata dalla Russia, è passata per l’Italia e forse per la Spagna, è stata bocciata da Messico a Argentina: più o meno può essere così tracciata la genesi internazionale della mossa con cui Nicolás Maduro ha tentato di dare scacco a Juan Guaidó, ponendo fine alla sfida che da un anno divide il Venezuela tra due contrapposti presidenti. Una manovra che sembra per ora fallita: estromesso dall’Assemblea Nazionale domenica, Guaidó è riuscito a rientrarci a sorpresa martedì, raffermando la sua sfida istituzionale e anzi rilanciando pure la sua leadership in un momento in cui i suoi sostenitori sembravano ormai in gran parte preda di stanchezza e sfiducia.

Qualche data per ricordare in breve i termini. Il 6 dicembre 2015 l’opposizione venezuelana ottiene 112 dei 167 seggi all’Assemblea Nazionale. Undici in più di quelli che ai sensi della Costituzione bastano per costringere alle dimissioni il vicepresidente e ministri; due in più di quelli necessari per rimuovere i magistrati del Tribunale Supremo di Giustizia e i rettori del Consiglio Nazionale Elettorale, per promuovere referendum e riforme costituzionali, per votare leggi di rango costituzionale e per convocare un’Assemblea Costituente. Ma il 23 dicembre, 8 giorni dopo la chiusura formale della Legislatura, la vecchia Assemblea viene convocata di nuovo, per votare di soppiatto un nuovo Tribunale Supremo di Giustizia (Tsj), senza rispettare il criterio della maggioranza qualificata e nemmeno vari altri requisiti.

È questo Tribunale che, il 29 dicembre 2015, con un ricorso annulla l’elezione dei quattro deputati dell’Amazzonia, facendo così venir meno all’opposizione la maggioranza qualificata. Quando il 6 gennaio tre dei quattro giurano lo stesso, il Tsj risponde prima dichiarando l’Assemblea in disobbedienza, cominciando a bocciare tutti i provvedimenti che vota, poi togliendole i poteri e passandoli al Presidente Maduro. Un vero e proprio golpe cui l’opposizione risponde con la protesta di piazza. Maduro contro-risponde con la repressione, con l’elezione di una Costituente, e poi facendosi rieleggere in presidenziali anticipate: due voti che l’opposizione boicotta, per la assoluta mancanza di garanzie. Quando parte il nuovo mandato, l’opposizione lo dichiara dunque illegittimo e, il 23 gennaio 2019, il presidente dell’Assemblea Nazionale Juan Guaidó è dichiarato presidente della repubblica a interim in un”cabildo abierto”, l’assemblea popolare che trae la sua origine nel Medio Evo iberico e che fu utilizzata dai Libertadores nelle guerre di indipendenza.

Il mondo si divide tra chi riconosce Maduro, chi riconosce Guaidó e chi rimane in mezzo. Tra questi ultimi l’Italia prima gialloverde e poi giallorossa. Su istanza dei Cinque Stelle, Guaidó non è riconosciuto come presidente ma per esigenze sia della Lega sia del Pd in compenso si dice che non lo è neanche Maduro. In pratica la posizione italiana è: “L’unica legittima autorità in Venezuela è l’Assemblea Nazionale, ma non quando dice che il suo presidente è il capo dello Stato a interim”. Una situazione complicata che crea incertezza, anche alla Russia che resta uno dei principali sostenitori di Maduro.

Non solo Putin dà infatti a Maduro appoggio diplomatico e soldi, ma ha anche mandato in Venezuela i suoi militari. In cambio Rofsnet e Gazprom hanno avuto un informale via libera a fare man bassa, ma anche altri interessi russi sarebbero ormai presenti nel Paese. Secondo alcune fonti, un recente misterioso attacco a una caserma nella zona di Gran Sabana sarebbe dovuto alla rabbia degli indios Pemón contro questi interessi russi. Ma si tratta di dati molto vaghi, anche perché con l’Assemblea Nazionale sospesa nessun accordo ha potuto essere formalizzato.

Cosa ancora più imbarazzante: secondo Bloomberg, a Mosca il viceministro di Finanze russo Sergey Storchak avrebbe istituito un team di 12 esperti, incaricati di trovare il modo per rimettere in sesto la disastrata economia venezuelana. Il Venezuela paga infatti alla Russia, secondo un contratto di debito ristrutturato di 3,15 miliardi di dollari, per cui Mosca ha interesse a che Maduro ridiventi solvente.

Molte delle proposte di questi esperti, però, verrebbero bloccate proprio per la resistenza di funzionari incerti su come andrà a finire, visto l’Assemblea Nazionale potrebbe dichiarare tutto fuori legge. Di conseguenza, sempre secondo Bloomberg, a dicembre Mosca avrebbe mandato a Maduro un invito preciso: normalizzare l’Assemblea! In particolare, mettendo qualcun altro al posto di Guaidó.

Ma come riuscirci? Un asset da sfruttare poteva essere la divisione dell’opposizione, che come accade sempre per questo tipo di “fronti” costituiti contro regimi autoritari in realtà è una coalizione instabile ove convivono differenti visioni politiche e differenti ambizioni personali. Ci sono gelosie contro Guaidó, ci sono dubbi sulla sua tattica e strategia, c’è stanchezza. Lo scorso dicembre sette deputati dell’opposizione facenti parte di una Commissione di Controllo sono stati accusati di essere stati corrotti dal regime per usare un occhio di riguardo nei confronti di Axel Saab, un imprenditore colombiano accusato dagli Stati Uniti di essere un prestanome di Maduro, e per di più titolare di una rete imprenditoriale che guadagna sul Clap, ovvero il programma di distribuzione di generi alimentari a prezzi sussidiati che è una delle principali basi di sostegno del regime per il formidabile potenziale di ricatto che esercita su una cittadinanza spesso ridotta quasi alla fame.

I sette sono stati quindi sospesi dai loro partiti. Ma già in precedenza Maduro ha provato ad accreditare l’esistenza di una “opposizione responsabile”, offrendo riconoscimenti a un gruppo di partiti minoritari. Il 28 novembre un gruppo di questi oppositori è stato ricevuto dalla Commissione Esteri del Senato italiano su iniziativa del presidente, il pentastellato Vito Petrocelli. La “genuinità” di questi oppositori che parlavano bene di Maduro è stata subito contestata da altri membri della Commissione, ma la presenza dei Cinque Stelle nel governo italiano ha rappresentato un ponte verso un certo tipo di iniziative, e d’altronde l’ingresso di Podemos nel governo spagnolo fa di Madrid un’altra sponda. Non a caso oggi su queste e altre ambiguità gli italo-venezuelani scendono in piazza davanti a Montecitorio. “Non siamo fantasmi” è lo slogan che compare anche in un dossier che denuncia le inadempienze del Consolato italiano, chiede conto di che fine hanno fatto i 34 milioni stanziati per il Venezuela dall’Unione europea e più in generale chiede l’istituzione di una unità di crisi della Farnesina.

Con impulso russo e possibili sponde italo-spagnole, dunque, la manovra è partita domenica, con il semplice espediente di filtrare gli ingressi in Assemblea Nazionale. Sono entrati i deputati governativi, sono entrati 18 deputati dell’opposizione comprati, ma non sono stati fatti entrare gli altri. Con pretesti più o meno speciosi di controllo di sicurezza. Tra di loro lo stesso Guaidó, che a un certo punto si è spazientito, e ha provato a passare scavalcando un’inferriata. Ma lo hanno respinto, mentre all’interno veniva votato un nuovo ufficio di presidenza tutto coposto da membri della “Opposizione Clap”, come è stata ribattezzata. Presidente: Luis Parra.

Un problema, però, è che non si è riusciti a raggiungere il quorum legale di 84 votanti. Qualche maligno ha insinuato sulle scarse capacità di calcolo matematico di Diosdado Cabello: numero due del regime indicato come organizzatore della manovra. Guaidó comunque a quel punto ha riunito 100 deputati alla sede del quotiduiano El Nacional, si è fatto rieleggere ed ha così dimostrato che il quorum Parra non poteva averlo avuto, dal momento che 167 meno 100 fa al massimo 67.

Per due giorni, il Venezuela si è ritrovato così anche con due presidenti di Assemblea. Ma la storia dei deputati bloccati fuori dall’ingresso è risultata talmente estrema che è stata respinta anche dagli ultimi governi di sinistra che nella regione avevano finora fatto sponda a Maduro. «Impedire con la forza il funzionamento dell’Assemblea Legislativa è condannarsi all’isolamento internazionale. Rifiutiamo questa azione e chiediamo all’esecutivo venezuelano di accettare che il cammino è esattamente l’opposto. L’Assemblea deve eleggere il proprio presidente con totale legittimità», ha subito ammonito il ministro degli Esteri argentino Felipe Solá. «Il Messico fa voti perché l’Assemblea Nazionale del Venezuela possa eleggere democraticamente la propria Giunta Direttiva conforme al processo stabilito nella Costituzione di questo Paese fratello. Il legittimo funzionamento del potere legislativo è il pilastro inviolabile delle democrazie», è il messaggio venuto dalla Segreteria alle Relazioni Estere del Messico.

Ultimamente, in America Latina un po’ troppi presidenti sono saltati in maniera traumatica e un po’ troppe piazze sono state insanguinate. Fermare una certa deriva ormai sta diventando interesse di tutti: a destra come a sinistra e al centro. Quando due giorni dopo Guaidó e i 100 deputati si sono presentati di nuovo di fronte all’Assemblea Nazionale, le guardie non hanno opposto resistenza e sono state travolte da una fiumana che ha guadagnato l’emiociclo ed ha rieletto Guadó anche presidente a interim. Qualcuno ha visto Parra e i suoi addirittura scappare.

Lo stallo insomma continua. Ma la scorciatoia di Putin è stata bloccata.

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