In Villetta con ospiti, film di Ivano De Matteo in arrivo nei cinema, ci sono molte cose già viste. C’è la famiglia ricca e disfunzionale, con il marito assente (Marco Giallini) e infedele, la moglie semi-depressa e la figlia ribelle. C’è la provincia veneta soffocante e pettegola, dove sotto alle apparenze ipocrite non si salva nessuno, nemmeno il prete, il medico di successo e il poliziotto. E infine c’è il rapporto tra italiani (cattivi) e stranieri (buoni), in cui a questi ultimi tocca il ruolo di servitori, fattorini, quasi schiavi: una casta inferiore che assolve a tutti i bisogni dei loro padroni, anche il piacere sessuale.
Un déjà-vu cinematografico continuo. Almeno fino a quando, durante una notte di vento, qualcuno non spara a qualcun altro (di più non si può rivelare) e le cose cambiano. La tensione costruita durante il giorno emergerà nel buio. I sette protagonisti, riuniti intorno al fattaccio appena avvenuto, saranno trascinati in un vortice di meschinità e bassezze, impegnati a districarsi nelle pieghe della colpa, degli egoismi e delle scappatoie legali ipotizzate – ecco la novità – dalla legge sulla legittima difesa.
È questo il tema su cui si sorregge il film. Da qui – spiega il regista – deriva lo spunto originario, sia d’attualità che drammaturgico, che rende la pellicola un ibrido: è dramma psicologico e insieme denuncia sociale. «La difesa personale è un tema che volevo affrontare da tempo», dice Ivano De Matteo, «senza voler accusare o dare giudizi» e, soprattutto, «raccontando come la paura di perdere tutto ci possa far compiere atti impensabili».
A dire la verità, tutte le decisioni, dure e spregiudicate, che vengono prese nel corso della nottata, appaiono molto pensabili. Da un lato perché lo spettatore, istruito dalle scene precedenti, sa che non può aspettarsi niente di buono dai protagonisti. E dall’altro perché, detto con molta semplicità, sono conseguenze del tema stesso. La violenza autorizzata per legge, specie dopo le modifiche salviniane, viene declinata nei suoi aspetti più tragici: un omicidio commesso nel panico, il possesso di armi irresponsabile, le paranoie (personali e sociali) contro gli stranieri. Sulla scena c’è, insomma, un manifesto anti-salviniano, o anti-leghista, educativo senza essere didascalico. Anche perché ha ambizioni più alte.
Nello spettacolo (indecente) dei calcoli, in cui i personaggi cercano di divincolarsi dalla colpa e dalla responsabilità, si vede come, in un contesto di valori sfilacciati, prevalga un cupo istinto animalesco di conservazione (non a caso il film è inframmezzato da clip di animali): la morale (e la religione) vengono piegate dalle esigenze, i rapporti affettivi sono calpestati e repressi. Rimane solo lo spirito di sopravvivenza, espressa secondo un sentimento concorde: «Meglio non parlare».
Marco Giallini ci mette il volto feroce, ma il vero deus ex machina sarà il poliziotto napoletano (Massimiliano Gallo), personaggio terzo che si muove con agio tra i ricchi del mondo di sopra e i poveri (stranieri) del mondo di sotto. Servendosi di una logica di ricatti e minacce, riesce a chiudere la questione. All’alba l’incidente sarà sistemato. E potrà riprendere la vita di sempre: per non perderla è stato sacrificato tutto il resto.