Esperimenti editorialiMario Calabresi ci racconta “Altre Storie”, la sua newsletter

Venerdì l’ex direttore di Repubblica lancia un nuovo progetto giornalistico per raccontare le notizie quattro giorni dopo. Con una sola regola, ci spiega: «Racconterò le persone, non ci saranno analisi o editoriali»

Mario Calabresi, direttore di Repubblica dal 2015 al 2019, lancia un nuovo prodotto giornalistico. Un sito, mariocalabresi.com, e soprattutto una newsletter settimanale, Altre Storie, che ha già 15 mila iscritti e verrà inviata per la prima volta il 21 febbraio. Il suo ultimo libro è La Mattina Dopo, edito da Mondadori.

Da dove nasce l’idea di raccontare altre storie, di far luce su contenuti che non trovano grande spazio nell’editoria tradizionale?
Altre Storie nasce dall’esigenza e dalla voglia di raccontare storie che vadano al di là della cronaca di giornata. All’università di Stanford, alla scuola di giornalismo, che si trova nella Silicon Valley, cioè il luogo dove la disruption del giornalismo è stata più forte, dicono che non è più possibile raccontare quanto accade in tempo reale. Puoi fare una foto dell’ultimo tweet di Trump o di Salvini, ma poco più. Secondo Stanford il giornalismo serve quattro giorni dopo, quando sei in grado di far capire ai tuoi lettori quali sono le cause di un fatto, di analizzare le sue conseguenze e di spiegarne il contesto.

Un lavoro che i quotidiani tradizionali non riescono a fare?
Oggi i quotidiani inseguono l’ultima notizia, l’ultima battuta. Quando ero direttore ho cercato di lavorare sulle inchieste e di aggiungere ragionamento, ma purtroppo il sistema mediatico è travolto dai ritmi della rete. Da qui l’idea di Altre Storie, che non nasce per recuperare storie vecchie o strane, originali, ma per raccontare quello che accade con un punto di vista un po’ spostato, un po’ laterale, che cerchi di cogliere anche degli aspetti universali. Con un dato: a me interessa raccontare le persone, nella newsletter non ci saranno delle analisi o degli editoriali. È il metodo che utilizzo nei miei libri e che ho sperimentato in questi mesi su Facebook.

Come mai ha scelto lo strumento newsletter?
È cominciato per gioco, perché le mie storie su Facebook vanno bene e hanno tanti lettori, ma dopo un po’ si perdono. Mentre la newsletter ha il grande pregio di poter essere archiviata. Mariocalabresi.com servirà anche a questo, sarà l’archivio delle mie newsletter, che quindi potranno essere consultate. Abbiamo bisogno di cose che restano. Il formato ricorda anche la carta stampata: una volta inviata una newsletter non puoi più cambiarla, quindi necessita una cura da prodotto artigianale. Ci ho preso gusto: ho appena chiuso il primo numero che verrà inviato venerdì e ho lavorato divertendomi sui particolari, concentrandomi sull’occhiello, la didascalia, il neretto, il sommario, la fotografia, l’illustrazione. È un prodotto editoriale vero.

Il rapporto con gli iscritti di una newsletter è diverso da un rapporto con i lettori di un quotidiano. È più intimo e faticoso, perché l’iscritto tende a rispondere e a creare un rapporto quasi personale con l’autore. Si rischia che questo diventi un lavoro nel lavoro.
Ho già sperimentato questo rapporto diretto su Facebook con le interazioni, ed è una fatica. C’è bisogno di tempo per rispondere, ascoltare, interagire. Però è una miniera infinita, molte delle cose che ho scritto in questo periodo mi sono arrivate dalle persone che mi hanno cercato, che hanno voluto condividere qualcosa con me. A questo poi bisogna aggiungere il rapporto reale, perché quello che scrivo arriva alla fine di lunghe conversazioni con persone che ho incontrato per davvero dopo aver preso la macchina o un treno. Ho ritrovato il mio mestiere, per dieci anni non sono riuscito più a farlo, e adesso invece mi sento più leggero e con il lusso di avere del tempo, di poter decidere di dedicare uno, due o addirittura tre giorni a una storia.

Qual è il modello di business di Altre Storie?
La newsletter è gratuita e lo resterà, per adesso il modello è questo: vediamo come decolla e se decolla, come va. L’idea è che diventi poi per me una piattaforma, un luogo dove condividere e raccontare altri progetti che invece gratuiti non sono. Mi piacerebbe creare una comunità a cui poter proporre e presentare altre iniziative. Tra un mese lancerò una serie podcast che ho fatto con Storytel, e questa serie la racconterò e la integrerò con la newsletter. Nel form di iscrizione ad Altre Storie viene richiesto il Cap proprio per sapere dove sono i miei lettori, in modo da poter organizzare presentazioni di libri o eventi connessi alla newsletter nelle città dove la comunità è più forte. A quel punto potrò scrivere direttamente a chi abita in queste città e segue il mio lavoro per organizzare degli incontri. Ho imparato in questi anni che è necessario recuperare la fiducia delle persone. Bisogna lavorare per sanare la rottura tra i lettori e i giornalisti, si deve ripartire da una comunità e da un rapporto più stretto con chi ci ascolta e chi ci legge, perché la credibilità passa anche da qui.

Cercherà dei finanziatori o degli investitori?
Al momento no, voglio sbagliare da solo. Sto sperimentando, delle cose funzioneranno, altre no. Se avessi dei finanziatori a cui rendere conto mi sentirei frenato, invece ho la libertà di sperimentare e cercare nuove strade. Non intendo correre i 100 metri, ma una maratona. Il 17 febbraio ho compiuto 50 anni e sono andato a vedere quando prenderò la pensione, precisamente tra 17 anni e 6 mesi. Devo lavorare ancora a lungo, non cerco delle soluzioni di breve respiro, ma voglio costruire qualcosa che stia in piedi su un periodo lungo.

Quante persone collaborano al progetto?
Principalmente io e una collega che lavorava a Repubblica con me che mi aiuta. C’è poi c’è la società che si occupa della parte tecnologica e mi supporta da questo punto di vista e due illustratrici: Olimpia Zagnoli, che ha disegnato il logo della newsletter e Marta Signori, che disegna i ritratti delle persone che intervisto o che sono al centro dei racconti. Infine, una comunità di amici con cui parlo, mi confronto, e che mi stimola.

Questo tipo di lavoro che sta portando avanti non si può replicare in un grande quotidiano tradizionale?
Certo, e in parte l’avevo già messo in pratica. La newsletter ai tempi della Stampa che si chiamava La Cucina della Stampa, o Super 8 di Repubblica avevano la stessa filosofia. Anche un podcast come Veleno, che ho prodotto io quando ero a Repubblica, è ispirato a questo modo di intendere il giornalismo. L’editoria tradizionale ha l’angoscia e l’urgenza del calo delle copie, della crisi delle edicole, di far quadrare i conti, della pubblicità digitale che manca. E allora l’attenzione è rivolta a risolvere prima questi problemi. I modelli a cui mi ispiro sono Tortoise, un’app creata da James Harding, ex direttore di BBC News o anche De Correspondent, il sito olandese che si occupa di unbreaking news. Questi due sono giornali con un vero e proprio staff, però l’idea di base è la stessa.

Nel breve modulo che si deve compilare per iscriversi ad Altre Storie si chiede se si preferisce passato o futuro. Come mai ha inserito questa curiosità?
È una domanda nata per divertimento, e la cosa interessante è che mentre il passato vince col 51%, tutti quelli che mi fermano per strada o mi scrivono vogliono dirmi che hanno scelto il futuro. Forse perché chi dice passato sente di essere più conservativo, mentre chi sceglie il futuro è più orgoglioso di guardare avanti. L’ho chiesto perché nei miei libri ho usato spesso il passato ma sempre per guardare avanti, mentre ogni volta che faccio un post su Facebook che parla di passato o del piccolo mondo antico ha un successo molto più grande di quando parlo di futuro. C’è sempre una sorta di fatica, di timore, di paura di quello che viene dopo. Mi interessa capire come mai.

Lei è uomo da quotidiano, non viene da una rivista o da un settimanale. Non le manca quel tipo di adrenalina?
Quando ho saputo che avrei dovuto lasciare Repubblica ho provato una grande angoscia, e mi sono proprio chiesto «Come farò senza quell’adrenalina»? Avevo paura, invece ho scoperto che posso farne a meno. Perché il mio motore non era l’adrenalina, ma il giornalismo, cioè parlare con le persone, cercare storie, scavare, chiedere, andare in giro, vedere. I tre momenti più felici della mia vita giornalistica sono stati il periodo all’Ansa dove ho imparato a cercare; l’esperienza da corrispondente negli Stati Uniti e la campagna elettorale americana, che è stato un viaggio meraviglioso, dove ho visto 36 stati in 18 mesi; fare La Stampa, perché l’avventura di costruire un giornale con un’innovazione altissima è stata una soddisfazione. Però alla fine ho capito che non posso vivere senza il giornalismo, l’adrenalina me la danno le storie che cerco. In questo momento tra il libro, il podcast e la newsletter mi sento come un topo nel formaggio, mi sto divertendo un sacco. E non avrei risposto così sei mesi fa, è stato un processo lento. Per tornare al libro, la mia mattina dopo la fine dell’esperienza a Repubblica non è stata facile: all’inizio il mondo del direttore mi mancava, perché è un mondo pieno e con un’agenda fittissima che all’improvviso scompare e lascia un vuoto. Adesso però questo fatto di essere leggero, di lavorare in un coworking o in posti meno istituzionali mi diverte. È tutto più semplice, vivo in jeans, non metto cravatte da un anno e tutto questo mi piace molto.

Progetti come il suo sono il futuro del giornalismo, che si reggerà su iniziative indipendenti e con strutture leggere, o abbiamo ancora bisogno dei grandi giornali?
I grandi giornali sono fondamentali, ma devono fare un lavoro importante di recupero di senso e di rapporto con i lettori, altrimenti il rischio è che i lettori non li considerino più. Sarebbe un male, perché la crisi dei grandi gruppi editoriali disperderebbe i cittadini e i lettori in piccole nicchie, che contano meno. Ma non intendo criticare in modo scomposto chi lavora nei grandi giornali, sarebbe ipocrita e poco elegante fare la lezione a chi è rimasto dentro l’industria editoriale dopo aver fatto per dieci anni il direttore. Non sarebbe giusto perché conosco perfettamente le difficoltà di quelle macchine quotidiane gigantesche, e so bene quanto è fastidioso vedere chi critica senza conoscerle. Cerco di essere fedele a quello che ho fatto nella mia carriera, che è un lavoro di approfondimento, di racconto, di trovare delle persone che abbiano una storia da raccontare. Ciò che faccio già esiste, sono forme di giornalismo presenti, io cerco di sperimentare utilizzando canali meno tradizionali. E credo che l’editoria tradizionale dovrebbe tenere in maggior considerazione questi canali.

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