Da oltre dieci anni con la mia testata Repubblicadeglistagisti.it osservo e racconto il mercato del lavoro dal punto di vista dei giovani. Talvolta mi sento chiedere: le stagiste subiscono discriminazioni? Hanno meno opportunità rispetto agli stagisti maschi? La risposta, supportata anche dai dati, è che no, le opportunità di tirocinio sono equamente distribuite e le probabilità di essere assunti dopo il periodo di formazione non sono minori per le ragazze. Lo stage è un momento idealmente “paritario”. La discriminazione inizia immediatamente dopo. Anche su ragazze nemmeno trentenni, non ancora madri e palesemente non interessate a diventarlo nell’immediato futuro. La discriminazione è intrinsecamente, inevitabilmente legata al fatto che sono dotate di un utero – e dunque potenzialmente madri. Le donne dunque non sono buone lavoratrici perché prima devono essere, appunto, madri (lo specifica perfino, ahi noi, la nostra Costituzione: guardare per credere all’articolo 37).
In questi dieci anni, su come si possono rafforzare le ragazze e le donne sul mercato del lavoro sono state messe sul tavolo moltissime idee: incentivare lo studio delle materie scientifico-tecnologiche (Stem), perché queste competenze sono più richieste dal mercato del lavoro e garantiscono maggiore occupabilità; favorire lo smart-working per permettere di organizzare meglio tempi e luoghi di lavoro; potenziare gli asili nido e i servizi all’infanzia; garantire un’equa rappresentanza di genere nei cda e in generale nelle “stanze dei bottoni”; aumentare la visibilità delle donne in tutte le occasioni pubbliche, dalla presenza nei talk show televisivi alla partecipazione a convegni e dibattiti; e molto altro ancora. Tutto questo è importante. Ma niente è risolutivo tranne una sola azione: demolire, estirpare alla radice il problema che mette le donne in una situazione di subalternità rispetto agli uomini sul mercato del lavoro. La maternità.
Tranquilli, non sto suggerendo isterectomia obbligatoria per tutte. Lungi da me anche accarezzare idee distopiche come l’utero artificiale che permetterebbe alle donne di levarsi la scocciatura della gravidanza. Potrei dire anzi che fare bambini è bellissimo, e le donne sono fortunate a poter vivere questa esperienza, portare dentro di loro la vita: sarebbe certamente vero. Ma in questo articolo ben più rilevante è dire che fare bambini è marginale, a livello complessivo, sul rendimento di una persona all’interno di una intera vita lavorativa.
Una gravidanza dura nove mesi, mettiamoci mediamente altri sei mesi di allattamento esclusivo al seno, significa che ogni bambino “pesa” sulla vita di una donna, nel senso fisico “indelegabile”, solamente per quattordici mesi. Se ogni donna facesse due figli nella sua vita – e attenzione, si tratta di un calcolo ottimistico: la media italiana è invece tristemente ferma a 1,29, con un’età media di oltre 32 anni al parto – vorrebbe dire due anni e quattro mesi di “impegno” fisico, di cui solamente qualche settimana in maniera davvero esclusiva e totalizzante. In una prospettiva di vita lavorativa di ognuno di noi tra i quaranta e i quarantadue anni, cosa sono pochi mesi? Niente.
Il problema infatti non è la gravidanza, non è il parto, non è il puerperio e non è neanche l’allattamento al seno. Il problema è che ancora oggi, come diceva l’antico proverbio che ci sta ancora oggi tagliando le gambe, «I figli sono delle mamme». A volte lo diciamo anche noi: pensiamo sia una cosa bella, ne siamo fiere. E il mercato del lavoro ci prende in parola: Ah sì, i figli sono delle mamme? Dunque quando si ammaleranno saranno le mamme ad andare a prenderli a scuola, saranno le mamme a stare assenti dal lavoro per prendersene cura. Alle riunioni di classe andranno le mamme, solo le mamme gestiranno le chat dei genitori, solo le mamme cucineranno torte per le feste di fine anno. Quando avranno le attività extra scolastiche, i saggi e le recite, saranno le mamme a dover presenziare. Se saranno ricoverati in ospedale, saranno le mamme a stare sedute accanto a loro. Ogni problema, ogni imprevisto: i figli sono delle mamme. E allora perché mai dovrei assumere una potenziale mamma, o peggio una già mamma?
E invece i figli sono anche dei papà, guarda un po’. Che, salvo gravidanza e allattamento al seno, possono fare tutto. Sono in grado di svolgere ogni attività con i figli. La responsabilità può essere condivisa al cento per cento. Non è vero che con il papà i figli non si addormentano; non è vero che i papà non sanno vestire a dovere i bambini, curarli a dovere, intrattenerli, rassicurarli. È tutta una questione di “usi e costumi” che vanno completamente riscritti. In ottica paritaria. A cominciare dal congedo.
Per questo è così importante la proposta di legge su cui stanno lavorando cinque parlamentari di schieramenti diversi – Erasmo Palazzotto e Rossella Muroni di LeU, Lia Quartapelle del Partito democratico, Paolo Lattanzio del Movimento Cinque Stelle e Alessandro Fusacchia di Movimenta, nel Gruppo Misto – dal titolo provvisorio «Misure a sostegno della condizione della donna, dei diritti di maternità e paternità e della crescita demografica». La proposta prevede tra le altre cose, fermo restando il congedo obbligatorio di maternità di cinque mesi già esistente, l’introduzione di un congedo di paternità obbligatorio di tre mesi, e una copertura del 100% della retribuzione sia per le mamme sia per i papà (al momento la copertura è all’80%, e sale solo grazie a contratti integrativi aziendali).
Questa è la direzione giusta. L’unica sensata per togliere dalle spalle delle donne la lettera scarlatta – in questo caso non la A di adultera ma la M di mamma – nei luoghi di lavoro. L’unica in grado di riequilibrare la situazione e permettere alle donne di farsi strada al pari degli uomini. Vado addirittura oltre, e da anni sostengo che il congedo di maternità dovrebbe diventare “congedo di genitorialità”, e dovrebbe essere assolutamente paritario. Lo stesso identico numero di giorni per le madri e per i padri: nella mia proposta, quattro mesi per ciascuno, di cui il primo da prendere entrambi obbligatoriamente alla nascita – perché non c’è miglior palestra che prendersi cura di un neonato e di una puerpera dolorante e preda di ormoni ed eventuale montata lattea per immergersi fino in fondo nel ruolo di padre e compagno paritario.
Quattro mesi per ciascuno, pagati dalla fiscalità generale, per essere genitori alla pari da quel momento in poi, anno dopo anno. Genitori in grado di abituare gli insegnanti, i datori di lavoro, la società che alle riunioni ci può andare qualche volta il papà, qualche volta la mamma. Che non è detto che la mamma risponda per prima, in caso di emergenza, né che sia lei a dover mollare il lavoro per recuperare il figlio. Che il lavoro di mamma vale quanto quello di papà, e che i figli possono essere accuditi tanto da mamma quanto da papà.
Attenzione, questo è un insegnamento anche per i bambini stessi. Che siano maschi o femmine, giorno dopo giorno vedranno che il mondo intorno a loro non è segmentato in ruoli e compiti predefiniti: vedranno che i genitori sono interscambiabili, che entrambi hanno impegni lavorativi degni di rispetto, che gestiscono il proprio tempo con i bambini in maniera solidale. Rispetto ai padri di ieri, pietrificati nel ruolo di bread-winner a stento capaci di riportare un piatto nel lavello a casa e di fare con i figli attività più complesse di mezz’ora di gioco prima di andare a letto, i padri di oggi vogliono giustamente avere l’opportunità di vivere la parte emotiva, quotidiana della paternità, stabilendo un rapporto forte coi figli.
E attenzione anche al valore formativo del prendersi cura dei figli: il progetto Maam dimostra, ormai da anni, come le competenze che sia le mamme sia i papà sviluppano inconsapevolmente nel prendersi cura dei bambini possono poi essere trasformate anche in competenze professionali importantissime – soft skills come la capacità di delega, di organizzazione del tempo, l’empatia e così via. Dunque, win-win: col congedo paritario di genitorialità si aiuterebbero le donne sul mercato del lavoro, liberandole finalmente di quella subalternità odiosa che ancora subiscono; e si aiuterebbero gli uomini a vivere la dimensione privata e familiare in maniera più piena.
Certo, il congedo costa. Come ricorda Titti Di Salvo, già sindacalista e parlamentare e “pasionaria” della battaglia per confermare e ampliare il congedo di paternità, la Ragioneria dello stato calcola che ogni giorno di congedo di paternità costi all’incirca 10 milioni di euro, 1,2 milioni in più di quello delle mamme: da ciò si può dunque dedurre che ogni giorno di congedo di maternità costi invece 8,8 milioni (la differenza sta nel fatto che gli uomini hanno in media stipendi più alti delle donne, ovviamente). Dunque il congedo di genitorialità di 4+4 mesi costerebbe circa 2 miliardi e 300 milioni di euro (1 miliardo e 200 milioni per coprire la parte dei maschi, poco meno di un miliardo e 100 milioni per coprire quello delle femmine) all’anno. Ovviamente non si tratterebbe di una spesa completamente nuova: a oggi lo Stato già stanzia oltre un miliardo e trecento milioni, più o meno, per il congedo di maternità obbligatorio di cinque mesi e circa 70 milioni per il congedo di paternità obbligatorio, che per il 2020 ammonta a sette giorni (pressoché simbolico, ma è opportuno ricordare che fino al 2012 in Italia nemmeno esisteva!).
Paradossalmente non è solo una questione di soldi. Contro il congedo di paternità paritario si schierano non solo i maschi più tradizionalisti e interessati a mantenere lo status quo ma, a sorpresa, anche non poche donne, e perfino alcune femministe. La motivazione? Il fatto che venga ridotto anche solo di poco il diritto acquisito delle donne di stare in maternità per introdurre o allungare il congedo di paternità risulta inaccettabile – anche se chi sostiene questa tesi evidentemente ignora che l’Italia gode di uno dei congedi di maternità più lunghi al mondo. E alcuni si spingono a sostenere che nei primi mesi la presenza del padre sia pressoché inutile, perpetuando inconsciamente quegli usi e costumi deleteri che portano poi alla sequela i-figli-sono-delle-mamme-le-donne-sono-prima-di-tutto-mamme-dunque-sul-mercato-del-lavoro-meglio-valorizzare-gli-uomini.
La sfida è dunque doppia. Finanziaria: bisogna trovare quei soldi, convincere la politica che spenderli sul congedo di genitorialità sia opportuno e lungimirante, e che ci saranno ricadute positive nel medio-lungo periodo sul fronte dell’occupazione femminile, della riduzione del gender pay gap, e sperabilmente anche del tasso di natalità. Ma la sfida è anche culturale. Bisogna convincere uomini e donne che fare bambini è un affare comune, e che va gestito in forma paritaria.