Negli Stati Uniti le targhe automobilistiche, rilasciate dai singoli Stati, hanno un motto che le contraddistingue. La targa della Florida, per esempio, contiene un’immagine di due arance e le parole The Sunshine State, mentre l’Illinois, stato natale di Abraham Lincoln, si definisce Land of Lincoln. Qui in New Hampshire il motto sulle targhe è Live free or die. La frase – risalente a un brindisi del generale John Stark, durante la Rivoluzione Americana – riflette lo spirito individualista di uno dei pochi Stati che non tassa i redditi e dove non è obbligatorio portare il casco in moto.
Ma il New Hampshire è anche noto come The Granite State, a causa delle sue montagne di granito e, ancora una volta, del ferreo spirito individualista. Negli anni di elezioni nazionali —come il 2020 — viene però usato un terzo motto: First in the nation perché è lo Stato dove inizia la campagna elettorale e si svolge la prima elezione primaria del paese (in realtà, la campagna inizia con i caucus in Iowa, ma questa è un’altra storia).
Nel cuore del New England (con Vermont, Maine e Massachusetts), il New Hampshire ha una tradizione di democrazia diretta, simile alla Svizzera, che risale addirittura al tempo dell’arrivo dei pellegrini nel ‘600. Ogni marzo, quando la neve si è sciolta e le strade non sono ancora troppo infangate, tutti i residenti sopra i 18 anni si ritrovano in un cosiddetto town meeting per discutere e votare sugli affari del paese: comprare una nuova macchina per la polizia, ritoccare le imposte locali, modificare il piano regolatore ed eleggere i funzionari locali.
Fino al 1948, durante queste riunioni si eleggevano anche i delegati che andavano alle convenzioni nazionali dei due partiti (Repubblicani e Democratici) dove vengono decisi i rispettivi candidati per le elezioni presidenziali. Quell’anno, per attirare più persone al meeting, un membro del Congresso dello Stato ebbe l’idea di consentire ai cittadini di votare direttamente per il candidato presidenziale. Per essere votato bastava presentare una petizione con 50 firme. L’importanza di questa, apparentemente innocua, modifica si manifestò nel 1952, quando un gruppo di sostenitori presentò l’ex generale – pluridecorato nella Seconda Guerra Mondiale – Dwight D. Eisenhower come candidato presidenziale per i Repubblicani.
Da allora, i risultati delle primarie in New Hampshire sono considerati un indice attendibile del risultato delle elezioni generali a novembre. Negli anni successivi — dalle elezioni del 1952 in poi — un crescente numero di Stati ha cominciato a offrire la possibilità di tenere delle primarie, mettendo fine al vecchio sistema delle cosiddette smoke-filled-rooms, dove una volta le persone più influenti nello Stato sceglievano i candidati in parte con un sistema di scambi di favori e in parte cercando di intuire quale poteva divenire il cavallo vincente nella gara per diventare presidente. Con l’affermarsi di questo nuovo sistema delle primarie, divenne importante la data: quelle che venivano prima pesavano di più sulla scelta finale, anche se non venivano eletti molti delegati. Nel 1972, lo Stato del New Hampshire adottò una legge in base alla quale fu stabilito che le sue primarie dovessero sempre essere le prime della nazione. Come più o meno tutti gli americani, pensando alle primarie del New Hampshire, mi tornano alla mente alcune vecchie immagini del passato: Bill Clinton, infagottato per proteggersi dal freddo, che mangia patatine fritte con i pensionati al diner locale oppure i corrispondenti stranieri che scoprono a loro spese come nel New England (fra inverno e primavera) ci sia una quinta stagione, nota come la stagione del fango.
Nel 2017, dopo 30 anni trascorsi in Italia, sono tornata a vivere negli Stati Uniti. Benché votassi per corrispondenza, vivendo all’estero mi sembrava di sfuggire al mio dovere civico come americana. Sentivo, insomma, di essere in qualche parte responsabile per la disastrosa elezione di Donald Trump. Trasformando la mia casa di vacanza in New Hampshire in una residenza permanente, avevo l’opportunità di riscattarmi. Così appena arrivata, mi sono presentata nel comune del mio paese (che conta 4.852 anime) per iscrivermi come elettore e membro del partito Democratico. Ho subito sentito un brivido pensando che, anche grazie al mio attivismo politico, avremo la possibilità di rimuovere dalle mani di Trump il pulsante nucleare.
La data per le primarie in New Hampshire è l’11 febbraio, ma la corsa è cominciata un anno prima. Già nel gennaio 2019, infatti, Elizabeth Warren presentò per prima la petizione al segretario dello Stato per essere inclusa nella scheda elettorale. Pochi mesi dopo si è aperta la prima fase della campagna con gli house parties. Se la politica americana può considerarsi una politica al dettaglio, per restare in metafora, questi parties sono come il negozio del fruttivendolo all’angolo. Molti li ospitano e sono aperti a tutti. Per partecipare, basta leggere il giornale locale che pubblica un calendario con tutte le visite dei candidati nella zona o essere iscritto alla mailing list dei partiti e delle organizzazioni a supporto dei vari candidati—cosa molto facile dato che tutti sono a caccia di elettori. Per ospitare un house party, basta avere un salotto (e neanche molto grande) e comprare una dozzina di ciambelle (donuts), qualche scatola di caffè e vino (e talvolta neanche quello perché paga l’organizzazione del candidato invitato).
In piedi o su uno sgabello di cucina, il candidato enumera i propri punti di forza e ascolta le domande dal pubblico. La zona dove abito io è la sede del Dartmouth College — una prestigiosa università che fa parte dell’Ivy League — per cui le domande dei professori e dei medici tendono a essere complesse. Ma in New Hampshire, anche le domande di elettori meno istruiti sono difficili. Tutti si pongono come il contadino furbo che riesce a mettere in difficoltà un suo superiore sul piano sociale o accademico. Nell’immaginario popolare, le campagne elettorali americane si svolgono in stadi pieni di palloncini dove i candidati baciano i bambini e stringono le mani. In realtà questa fase è più simile a un talk show nel quale il pubblico è fatto di conduttori aggressivi. Il tono è allegro, ma la leggerezza maschera la loro vera importanza per i candidati, per i quali sono un laboratorio dove provare e raffinare il messaggio o un campo dove trovare i sottoufficiali per la fanteria della loro campagna locale.
Uno dei primi house parties ai quali ho partecipato è stato nel mese di aprile 2019 per Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts (lo Stato confinante con il New Hampshire). Davanti al caminetto nella casa di un medico specialista, ci ha raccontato la sua storia. Da bambina era così sicura di fare la maestra che metteva i suoi pupazzi di peluche in fila per far loro lezione. Dopo il matrimonio e una gravidanza a soli 19 anni, rinunciò agli studi per fare la mamma. Tornò poi all’università locale che poteva permettersi perché le rette erano accessibili. Sperava di poter così finalmente coronare il proprio sogno di fare la maestra di sostegno per bambini handicappati. Dopo il divorzio, proseguì gli studi laureandosi in legge e iniziò così la carriera accademica che la portò in cattedra a Harvard.
Dopo la fase degli house party, i candidati iniziano a tessere la loro rete. Affittano uffici, assumono personale professionale e reclutano volontari. Si cominciano a vedere le insegne con i nomi dei candidati nei giardini o sulle finestre. Quando il sabato mattina si porta la raccolta differenziata dei rifiuti alla discarica — un vero e proprio rito in New England — capita spesso di trovare i candidati che distribuiscono volantini.
Per me, quel house party è stato decisivo. La storia di Warren, oltre ovviamente ai suoi programmi dettagliati e preparati con l’aiuto di esperti rinomati nei rispettivi settori, mi ha convinto a lasciare il mio nome ai giovani organizzatori della sua campagna presenti. Non hanno perso tempo. Qualche giorno dopo, Cassie Castro, a capo della sede locale, mi ha chiamato e invitato a prendere un caffè. Castro, che si è appena laureata, è già una veterana, avendo lavorato come volontaria nelle campagne di Hillary Clinton e Bernie Sanders. Lavora a tempo pieno per la campagna di Warren e viene remunerata per questo. Io, che non ho mai fatto politica nella mia vita, sono stata sedotta dal suo entusiasmo per Warren. Qualche giorno dopo, bussavo alle porte dei vicini con l’app della campagna che contiene una mappa di ogni zona con nomi e indirizzi dei Democratici. L’app contiene un copione da recitare agli elettori che si visitano, ma è al tempo stesso uno strumento per registrare dati circa il grado di sostegno per Warren o le tematiche che gli elettori considerano importanti (l’ambiente le disuguaglianze di reddito, ecc.).
Mi sono stupita di scoprire che riuscivo a trovare il coraggio di stare alla porta di completi sconosciuti e parlare di qualcosa di così personale come le loro scelte politiche. Ma gli elettori del New Hampshire sono disponibili e fieri del loro ruolo. Sono abituati a questo processo e le conversazioni spesso assomigliano ad amichevoli chiacchierate fra tifosi durante i campionati mondiali di calcio. Si parla, si fanno paragoni e ci si promette reciprocamente che se la tua squadra verrà eliminata ci si impegnerà per un’altra.
In dicembre la campagna ha cambiato marcia ed è iniziata la vera e propria organizzazione delle primarie. Cassie mi ha promosso alla posizione di responsabile per il training al campo base per insegnare ai volontari come andare porta a porta. Alla prima riunione, e a tutte quelle successive, dovevamo presentarci come nelle sessioni di terapia del gruppo: “Mi chiamo Madeleine e la ragione per la quale sostengo Warren è…” Può sembrare un rito ridicolo, ma come tutto nella campagna di Warren, è un approccio ben studiato. Lei punta molto sulla propria capacità di creare un legame personale con gli elettori, perciò è importante che coloro che agiscono per suo conto, bussando alle porte, riescano a condividere un’esperienza personale che stimola il dialogo.
È più importante creare un feeling e far sì che gli elettori si sentano ascoltati che farsi promettere che voteranno per Warren. Ci spiegano di rispondere sempre con “sì, è”, piuttosto che “sì, ma”. “Sì, il suo programma per il sistema sanitario è molto ambizioso e crediamo che possa riuscire.” Vedremo se l’approccio sarà efficace e si tradurrà in voti; al momento, i volontari ci riferiscono che la gente incontrata li considera quelli più amichevoli e preparati.
Warren è nota per i programmi dettagliati su una vasta gamma di questioni, grandi e piccole: dalla qualità delle residenze per i militari alla regolamentazione del lavoro part time, dall’ambiente al sistema sanitario, ecc.. Ci viene chiesto di familiarizzare con uno dei suoi programmi, a nostra scelta, a seconda dei nostri interessi e delle sensibilità politiche, in modo da poterne poi parlare con convinzione e sufficiente competenza quando incontriamo gli elettori.
Così, per quattro fine settimana di seguito, mi sono presentata all’ufficio della campagna di Warren dalle 8:30 di mattina fino a quando gli ultimi volontari tornano dal giro porta a porta alle 6:30 di sera. Spiego loro come si usa l’app della campagna, faccio discorsi motivazionali e gestisco i tre turni di volontari. Molti vengono da fuori, da New York (un viaggio di 5 ore in macchina), dal Vermont (sull’altra sponda del fiume Connecticut). C’è Nancy, che cammina a fatica e ci mette vari giorni per completare il suo pacchetto di 40 porte. C’è Xin, nata in Cina e da poco diventata cittadina, che ha già bussato a 1.000 porte. Elise è così timida che prima di uscire si chiude nello sgabuzzino per fare esercizi di respirazione. Priscilla ha più di 80 anni; non le crea problemi la temperatura glaciale (-15°), ma fa fatica a capire come funziona l’app. Così collabora con Alex e i due bussano a 100 porte in un solo pomeriggio.
Chiedo a Cassie se stiamo esagerando; forse la gente si secca di rispondere a degli sconosciuti che bussano alle porta Mi risponde che non ha mai sentito un elettore dire che non ha votato un candidato perché infastidito dall’eccessivo numero di visite dei volontari.
Ogni anno si apre una discussione che interessa l’intero Paese sul sistema delle primarie. Le critiche sono sempre le stesse: privilegia alcuni Stati che non rispecchiano la nazione perché sono piccoli, rurali e con popolazioni disomogenee. In effetti il New Hampshire è per il 93.9% bianco. Il candidato Julian Castro, ritiratosi dalla corsa per mancanza di fondi, e alcuni influenti esponenti del Democratic National Committee (l’organo responsabile per definire la strategia del partito Democratico) hanno criticato il sistema attuale che, ai loro occhi, finisce per indirizzare la scelta dei candidati troppo presto nel processo.
La lotta alla corruzione è la colonna portante della campagna elettorale di Warren e lei è la prima a dare l’esempio. Pur consapevole di quanto sia importante la raccolta fondi, non accetta grandi donazioni e si rifiuta di frequentare VIP, ricchi uomini d’affari o lobbisti. Le elezioni sono diventate un business in tutti i sensi, ma non per lei: a differenza dei suoi competitor non ha assunto società di sondaggi né istituti di ricerca e spende poco in pubblicità.
Così Warren, e con lei altri candidati meno conosciuti, dipendono quasi completamente dalla politica al dettaglio che ovviamente è possibile solo fintanto che stati piccoli come il New Hampshire rimangono importanti. Le campagne di Bill Clinton, Jimmy Carter e Barack Obama devono molto al New Hampshire che ha permesso di portare il loro messaggio direttamente agli elettori, evitando di spendere troppo presto cifre rilevanti per la pubblicità nazionale o per assumere professionisti della campagna. Allo stesso tempo, i candidati possono imparare molto da un pubblico tutto sommato informato e da un gruppo di volontari con tanta esperienza organizzativa.
Dopo queste primarie, il 22 e 29 febbraio, si vota in Nevada (48% bianchi e 28% ispanici) e in South Carolina (67% bianchi e 27% afro americani). Anche questi sono stati piccoli e dunque restano accessibili, come il New Hampshire, a candidati emergenti o con fondi limitati. Basta avere un messaggio, affittare una macchina e presentarsi al bar, alla parrocchia o alla discarica.
Lunedì 3 febbraio i caucus dell’Iowa hanno creato un caos perché un’app non ha funzionato. I riflettori ora sono puntati sulla primaria del New Hampshire. Chissà come andrà a finire, ma io e la mia squadra, nella sede di Lebanon NH, abbiamo bussato a tante porte in quest’ultimo weekend.