Un mea culpa. Per la prima volta dopo tanti anni la Commissione europea ammette che le regole fiscali per vigilare sui bilanci nazionali vanno cambiate. Il sistema è «Troppo complesso, poco trasparente e poco prevedibile». Per questo mercoledì il commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni, ha lanciato una consultazione per rivedere il Patto di stabilità e crescita europeo. Da febbraio fino alla metà del 2020 la Commissione si consulterà con governi, parlamenti, banche centrali; parti sociali, università e istituzioni fiscali indipendenti.Tutti saranno coinvolti per capire come semplificare le norme Ue e migliorare la trasparenza della sua attuazione. Poi entro la fine del 2020 Bruxelles farà le prime proposte. Un percorso, come si vede, lungo e tortuoso. Ma almeno il processo è stato avviato.
Quasi tutti sono d’accordo sul perché cambiare. La sfida sarà capire come. E soprattutto convincere gli Stati del Centro e Nord europea a cambiare idea. Non sarà facile convincere la Germania, l’Austria o i Paesi Bassi, ma soprattutto la nuova lega anseatica del rigore finanziario, formata da Finlandia, Danimarca, Irlanda e paesi baltici. Non a caso il lettone Valdis Dombrovskis, commissario europeo per la stabilità finanziaria è stato molto più cauto di Gentiloni durante la conferenza stampa di presentazione del piano. L’uomo considerato un “falco” del rigorismo ha messo le mani avanti e ha spiegato che sarà difficile creare un consenso unanime. Ma la vera notizia è che se ne parla per la prima volta in modo aperto. Le norme stringenti approvate nove anni contenevano il loro antidoto: per legge la Commissione ogni cinque anni deve rivederle e riferire sulla loro applicazione. Gentiloni non ha perso tempo per sfruttare questa finestra politica. L’aveva promesso durante la sua audizione al Parlamento europeo. Ora l’ha fatto.
Perché riformare il Patto di stabilità e crescita? Le regole erano state introdotte nel novembre del 2011, quando si era arrivati al culmine della crisi dei debiti sovrani iniziata due anni prima e che aveva colpito Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia. Il debito pubblico aumentato velocemente, lo spread arrivato ai suoi massimi storici e la paura di un possibile default ha portato gli Stati dell’Unione ad approvare due pacchetti di norme per contenere i danni e rendere più rigorosa applicazione del patto. Prima il six-pack, sei provvedimenti che hanno obbligato i Paesi a convergere verso il pareggio di bilancio (l’Italia lo ha inserito addirittura nella Costituzione) e migliorare ogni anno il deficit strutturale dello 0,5%. E soprattutto ridurre di 1/20 all’anno il rapporto debito pubblico/Pil se superiore al 60%. Poi il two-pack per rafforzare la sorveglianza della Commissione europea sui bilanci degli Stati membri in difficoltà. Bruxelles ha il potere di esaminare la legge di bilancio approvata ogni anno dai vari governi dell’Unione, di commentarla e suggerire, se non determinare, delle modifiche.
Così si è creata la routine di letterine, negoziati, annunci che ogni autunno affolla le prime pagine dei giornali italiani: entro il 15 ottobre il governo nazionale presenta il progetto di bilancio per l’anno successivo, la commissione europea commenta e propone delle modifiche entro il 30 novembre. Se necessario questo parere viene approvato dall’Eurogruppo, l’organo che riunisce i 27 ministri delle Finanze Ue. E se tutto va bene la legge di Bilancio è approvata il 31 dicembre. Un rituale affascinante per alcuni appassionati eurofili, ma difficile da capire per i cittadini comuni. Anche per questo motivo in questi anni è aumentata l’incomprensione di tanti elettori verso i meccanismi delle istituzioni europee.
Il problema è che questi otto provvedimenti approvati nove anni fa era evitare il contagio e cercare di mettere al sicuro l’eurozona, ora risultano troppo stringenti per far ripartire un’economia debole e appesantita da un alto debito pubblico. Hanno rafforzato i conti ma strozzato la crescita. Anche se questo non assolve i politici italiani che ci hanno messo del loro a rallentare il Paese. Negli ultimi anni i vari presidenti del Consiglio hanno sfruttato le complicate norme Ue per trattare con la Commissione. Per esempio il meccanismo dell’output gap: la differenza tra il Pil reale e potenziale di un Paese. Secondo le norme Ue, uno Stato può fare più debito se non sfrutta a pieno le proprie capacità produttive. Viceversa deve essere più rigoroso nei conti se il suo Pil reale coincide con quello potenziale. Però è difficile stimare il livello ottimale di efficienza operativa di un’economia. Ma chi può calcolarlo al meglio? Su questo equivoco il governo italiano, anche quando lo guidava Paolo Gentiloni, ha ottenuto più flessibilità. Tradotto: possibilità di fare più debito.
Ora il contesto è cambiato. Dal 2010 al 2019 il disavanzo pubblico nell’UE è diminuito dal 6,4% allo 0,9% e il tasso di disoccupazione dal 9,7% al 6,2%. La guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti ha rallentato l’economia europea. L’eurozona sta attraversando un periodo di stagnazione. E la neo presidente della Commissione europea ha lanciato due sfide: diventare un continente carbon neutral entro il 2050 e un piano di mille miliardi per stimolare gli investimenti il Green new deal.
Servono regole diverse per assecondare gli investimenti che dovrebbero portare a nuova crescita. Non è una richiesta da sovranisti. Addirittura il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha chiesto lo scorso settembre un accordo tra gli Stati all’unanimità per riformare il Patto di Stabilità, un accordo intergovernativo approvato all’unanimità. Anche l’ European Fiscal board ha proposto l’idea di introdurre una golden rule limitata. Tradotto: escludere certi investimenti dal calcolo del deficit. Ancora non è successo nulla: e come è spesso accaduto, un progetto sensato potrebbe cadere per colpa degli egoismi nazionali. Ma per la prima volta si parla di cambiamento: è già qualcosa