Parafrasando un vecchio slogan, si potrebbe dire che la trasformazione digitale di un Paese non è nulla se non si contrasta il digital divide. Ci riferiamo a concetti relativamente nuovi per l’Italia, le sue istituzioni e la sua società. Tuttavia alle porte degli anni Venti del 21esimo secolo a nessuno è concesso di ignorarli, se non altro perché è la vita quotidiana stessa a richiedere sempre più una alfabetizzazione su questi temi.
La trasformazione digitale in Italia ha subito un forte impulso con la nascita, nel 2016, del Team per la Trasformazione Digitale, guidato per due anni dal manager Diego Piacentini. Con la nascita del governo Conte 2, l’innovazione è diventata poi un ministero, guidato dalla ministra Paola Pisano. E a capo del Dipartimento per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio dei Ministri è stato nominato Luca Attias, ex commissario straordinario che fino a dicembre 2019 ha guidato il Team Digitale.
Tra gli obiettivi c’è innanzitutto una conversione tecnologica della pubblica amministrazione, che in questi ultimi mesi si è dotata di strumenti online e social sia per la comunicazione che per lo svolgimento di funzioni “da sportello”, grazie alla nascita della app IO. Ma l’approccio del team non mira solo a migliorare i servizi pubblici, ma anche a cambiare le condizioni per l’uso e l’accesso privato alla rete: basti pensare al piano per la banda ultra larga o ai servizi di divulgazione per le novità digitali.
È proprio qui che si inserisce il tema del digital divide, ovvero il divario fra singoli individui o gruppi sociali (in questo caso all’interno del Paese) in riferimento all’accesso e all’utilizzo consapevole dei servizi online.
Un effetto collaterale dello sviluppo digitale che deve essere contrastato il più possibile perché avrebbe ricadute pesanti sulla società.
Un dato di partenza: secondo le stime dell’Ocse, in Italia circa il 26% della popolazione tra i 16 e i 74 anni non ha mai navigato in rete, al fronte di una media del 14% negli altri Paesi dell’Organizzazione. Si tratta di 10 milioni di cittadini che non utilizzano internet.
Per capirne le conseguenze e scoprire quali strategie sono in campo per ridurre il digital divide, bisogna partire proprio dal team per la Trasformazione Digitale e dal suo commissario staordinario Luca Attias, che hanno lanciato il progetto Repubblica Digitale. “Dal 2006 l’Unione europea – spiega Attias – indica otto competenze chiave per vivere al meglio la cittadinanza europea. Sono state aggiornate periodicamete, ma l’unica che non cambia mai è la competenza digitale. Non è una cosa da poco: significa che l’utilizzo consapevole della rete è un requisito per vivere a pieno la cittadinanza dell’Unione”.
Contrariamente a quanto accadeva anni fa o a quanto continua a succedere in alcune parti del mondo, la causa del digital divide in Italia è solo in minima parte ascrivibile a un problema infrastrutturale. Certo, ci sono “zone bianche” in cui la rete non arriva o arriva molto debole – e su quest’aspetto stanno lavorando Infratel (controllata dal Mise) e Open Fiber (nata dall’impegno di Enel e Cdp) – ma le vere ragioni del divario sono altre.
A partire dalla scuola. “Se non inizi da lì non hai speranza di risolvere il problema – dice Attias. Bisogna affrontare il digital divide in maniera strutturale, senza affidarsi a singole best practice che ci sono in giro per l’Italia”. Un modo, per esempio, è inserire insegnanti e insegnamenti adeguati: “Non si può pensare che le competenze digitali le insegnino il docente di italiano o di matematica, ci devono essere degli esperti”.
Poi però bisogna alfabetizzare anche chi a scuola non ci va più e non utilizza internet. E qui le strade sono due: da un lato iniziative quasi “volontaristiche”, ossia cercare di invogliare queste persone – soprattutto anziane – a usare certi servizi, dall’altro lato rendere obbligatorie certe pratiche online, magari in maniera graduale.
Attias guarda con favore alla seconda strategia: “Prendiamo il caso della fatturazione elettronica, che pure non riguarda direttamente il digital divide. Sembrava dovessero succedere disastri, invece è stata una rivoluzione culturale positiva. A volte bisogna andarci un po’ pesanti, prendere qualche decisione disruptive”. Senza pensare che gli anziani siano persone a cui è impossibile insegnare le novità digitali: “Quando ero in Corte dei Conti – ricorda ancora il commissario straordinario – regalammo diverse migliaia di pc dismessi ai centri anziani. Era impressionante quanto imparassero rapidamente a utilizzarli, anche perché la tecnologia ha applicazioni quotidiani utilissime anche per loro, basti pensare alla possibilità di parlare con il medico o di vedere il parente che vive lontano”.
In questo quadro, Repubblica Digitale vuole fare il suo: “Noi cerchiamo di migliorare i servizi digitali della Pubblica amministrazione, ma intanto vorremmo anche portare qualcuno di quel 26% su Google Maps, per esempio”.
I progetti in campo sono già una sessantina. Uno di questi vede l’impegno di Tim, che ha deciso di investire diversi milioni di euro per portare albatizzazione digitale in 107 aree del Paese a scarso utilizzo della rete. L’azienda ha deciso di investire con il solo guadagno di un ritorno di immagine, girando l’Italia con dei camper che raggiungono circa 1 milione di persone: “Un’operazione del genere, se riuscirà, avrà un impatto fortissimo, in grado di cambiare i nostri ranking”, commenta Attias.
Un’altra iniziativa interessante è quella della Trentino School of Management, che ha avviato un progetto formativo triennale per diffondere le competetenze digitali al personale della pa in Trentino. Ma gli attori coinvolti sono davvero molti: da Google a Facebook, passando per Intesa San Paolo e Linux.
Chi avvia un progetto ogni anno dovrà render conto dei risultati ottenuti, in modo da render giustizia alle risorse e alle energie investite. D’altra parte non c’è alternativa perché, come evidenzia Attias, se non si abbatte il digital divide faremo i conti con seri problemi: “Larga parte dei disoccupati troverà lavoro soltanto se saprà spendersi nel mondo digitale. Parliamo di data scientist, cloud architecht, business intelligence, ma soprattutto di professioni ibride, ovvero migliaia di mestieri che a causa del digitale si trasformeranno”.
Ma l’aspetto dell’occupazione è solo uno dei temi: “Un altro è la salute. Per una persona anziana lo smartphone può essere un salvavita, perché sa monitorare le funzioni vitali e perché può metterlo subito in comunicazione con i parenti e coi medici”.