In un paesino della campagna coreana un’ondata di omicidi di donne semina il panico. Avviene ogni volta che piove, e le vittime sono sempre vestite di rosso. È il 1986: c’è una squadra di polizia locale dai metodi approssimativi (pratiche sciamaniche, interrogatori da ring) c’è un detective mandato apposta da Seul in stile Fbi. Nonostante l’accoppiata, ogni pista porta a un nulla di fatto. Memorie di un assassino, film del 2003 di Bong Joon-Ho, dopo essere stato ignorato in Italia (mai proiettato al cinema) viene ripescato a distanza di 17 anni sulla scia del successo di Parasite, con cui il regista ha vinto un Golden Globe (prima volta per la Corea), la Palma d’Oro a Cannes e si è candidato a ben sei premi Oscar. Come a dire che le premesse erano buone e le promesse sono state mantenute.
La storia è vera. Dal 1986 al 1991, 10 donne vennero stuprate e uccise nel raggio di due chilometri in un villaggio vicino a Seul. Il killer agiva con estrema freddezza, sceglieva vittime a caso e di ogni età (da una bambina di 13 anni fino a una nonna di 73) e non lasciava nessun indizio. All’epoca il Paese non era attrezzato per affrontare i crimini seriali, fino a quel momento conosciuti solo nei telefilm. Durante le indagini vennero interrrogati tremila sospettati, parteciparono 300mila agenti, nessuno fu arrestato. Ancora oggi non si sa chi sia il colpevole.
Bong Joon-Ho parte da qui. Affascinato dalla vicenda e indignato dalle inefficenze delle ricerche, ne ricava un “thriller rurale”: il poliziesco all’americana calato nel contesto della campagna coreana (definizione sua, spiegazione nostra). E allora ecco agenti in canotta, trattori che cancellano impronte decisive, risse in trattorie ed espedienti disperati (addirittura una maga) per trovare l’imprendibile assassino, in una miscela di tensione e comicità.
Il poliziotto di campagna (Byun Hee-bong), dai metodi spicci, è convinto di saper individuare un colpevole «solo guardandolo negli occhi». Si ritroverà, sulla base di alcuni ragionamenti strampalati, a cercare un uomo glabro, ispezionando saune e bagni del villaggio. Quello di città, (Kim Sang-Kyung), inviato apposta per il caso, agisce in modo più scientifico: scartabella nei documenti, confronta gli indizi, valuta le coincidenze temporali. Risultato? Niente, per entrambi. O quasi, visto che un uomo sospettato si trova, ma mancano le prove. Dopo tante fatiche, a qualcuno salteranno i nervi.
A contorno c’è un ambiente e, soprattutto, un’epoca, quella a metà tra regime e democrazia, che il regista ricrea attraverso una meticolosa ricerca sul campo per individuare le (poche) zone agricole rimaste intatte. Inserisce gli allarmi anti-bomba, i blackout, le prove di evacuazione dalle scuole, le parate con i coriandoli, fino alle infermiere senza titolo che, sostituendo medici e ospedali, giravano per le campagne a somministrare flebo e medicine.
Un altro mondo rispetto allo squallore urbano (e contemporaneo) di Parasite, dove l’azione è costruita sulle trovate ingegnose della famiglia di Ki-woo per abbandonare la povertà – e segue l’asse, verticalissimo, della stratificazione sociale della nuova Corea. Memorie di un assassino, in questo senso, è uno sguardo all’indietro. Verso una realtà scomparsa, certo. E un caso ancora in sospeso.