Nel bicchier d’acqua del dibattito della sinistra romana ha sollevato molte increspature il lungo articolo di Walter Veltroni – terzo di una serie dedicata alle vittime degli anni di piombo – su Sergio Ramelli, il “ragazzino col Ciao” ucciso a Milano da esponenti di Avanguardia Operaia nel 1975. Il ricordo ha infastidito moltissimo uno dei portabandiera del movimentismo cittadino, Christian Raimo, assessore alla Cultura del terzo Municipio guidato dal Partito democratico e presieduto da Giovanni Caudo, uno dei nomi che si fanno sottovoce quando si parla della successione a Virginia Raggi.
Quel ritratto di Ramelli, scrive Raimo su Fb, è il santino di «un martire strumentalizzato per anni dai neofascisti, icona di Casapound Forza Nuova e tutti i figli e nipoti della militanza neofascista». «Una delle operazioni più vergognose che ho visto da anni nel dibattito pubblico». Ed è «deprimente e agghiacciante» che l’articolo sia stato scritto «da un ex segretario del Pd, ex sindaco di Roma ed ex ministro della cultura». Pubblicarlo in prima pagina sul Corriere, poi, indica «la diseducazione di massa avvenuta da vent’anni nei giornali: l’aver scelto di eliminare il valore della storia nel discorso pubblico a favore di memorialistiche emozionali, revisioniste, strumentali».
Nel dibattito che è seguito, con molti interventi critici da sinistra, Raimo ha via via precisato la sua posizione, anche con un secondo post nel quale ha pubblicato otto fotografie dei saluti romani alle manifestazioni commemorative di Ramelli, insistendo sul punto: per Veltroni, quel diciottenne è «il ragazzino col Ciao», per tutti gli altri «è da decenni l’icona del peggiore neofascismo». La de-diabolization del liceale (semplice militante, non picchiatore, preso in agguato sotto casa undici contro uno e morto dopo un mese e mezzo di agonia) è il punto centrale dell’attacco a Veltroni, il fulcro dell’indignazione dell’assessore e della sua contestazione a chi ha servito all’opinione pubblica un fatto «apoliticizzato e destoricizzato».
Pare di capire che la vicenda di Ramelli, secondo Raimo, avrebbe dovuto essere raccontata dal punto di vista dell’Avanguardia Operaia dell’epoca, o quantomeno dell’antifascismo militante che ne fu il principale contenuto operativo (in altri termini, come scrivono i pm del processo Ramelli, «L’aggressione ovunque fosse possibile delle persone aderenti o simpatizzanti della destra politica e la distruzione delle sedi e dei ritrovi da esse presuntivamente frequentati»).
Non varrebbe la pena occuparsene se l’autore non fosse personaggio assai visibile della proposta politica progressista in città, alla guida dell’assessorato alla Cultura in uno dei quattro Municipi che il Pd è riuscito a strappare al M5S, spesso descritto come testa di ponte del “modello Zingaretti” in città. Che da questo tipo di tribuna, quasi mezzo secolo dopo l’orribile omicidio di un inerme, si cavilli ancora, e con tanta energia polemica, sulla modalità del suo ricordo e dell’interpretazione dei fatti non è un buon auspicio e sollecita la necessità di un chiarimento.
Il contrasto alle politiche d’odio è uno dei punti centrali della narrazione progressista e dell’idea di una diga che fermi l’ascesa del sovranismo estremista e potenzialmente autoritario, a Roma e in Italia. Ma se da tribune autorevoli della sinistra si ha difficoltà a qualificare come delitto d’odio, frutto della politica dell’odio, aggressione d’odio, il mortale pestaggio di un diciottenne, il discorso della diga contro l’odio si fa meno convincente.
Se, addirittura, si giudica «diseducazione di massa» la pubblicazione di un articolo che rievoca quell’orribile delitto, c’è un problema. I molti sessantenni che da sinistra hanno replicato a Raimo dicendogli, più o meno, «ma sei impazzito?», testimoniano che questa falla è evidente e disturba chi gli anni di piombo li ha vissuti e non ne ha nessuna nostalgia, per nostra fortuna, per fortuna di questo povero Paese. Ma gli altri, che dicono?