“L’ascesa del capitalismo di sorveglianza negli ultimi due decenni è stata ampiamente incontrastata. Ci hanno detto che il digitale sarebbe stato così veloce da lasciare indietro i disorientati. Non sorprende che così tanti di noi si siano affrettati a seguire il vivace Bianconiglio verso un promesso paese delle meraviglie digitali dove, come Alice, siamo caduti preda dell’illusione. Nel Paese delle Meraviglie, abbiamo celebrato i nuovi servizi digitali come gratuiti, ma ora vediamo che i capitalisti di sorveglianza dietro questi servizi ci considerano come prodotti gratuiti. Abbiamo pensato di cercare su Google, ma ora capiamo che è Google a cercarci. Abbiamo ipotizzato di utilizzare i social media per connetterci, ma abbiamo appreso che la connessione è il modo in cui i social media ci utilizzano. Ci siamo a malapena chiesti perché la nostra nuova TV o il materasso avessero una politica sulla privacy, ma adesso iniziamo a capire che le politiche di privacy sono in realtà politiche di sorveglianza”. Afferma in un recentissimo articolo sul New York Times, Shoshana Zubof, l’accademica statunitense nonché nota autrice di The Age of Surveillance Capitalism.
E in effetti è oltremodo difficile non condividere queste affermazioni e i timori che a esse si legano. E non concordare sul dato di fatto che la tecnologia come la globalizzazione, e la spasmodica e inarrestabile ricerca dell’innovazione in tutti i settori in cui l’uomo si manifesta ed esprime, uniti alla possibilità di spostarsi con grande facilità, sia fisicamente sia virtualmente, abbiano messo ciascuno di noi nella condizione, talvolta nella costrizione, di sentirci insicuri e disorientati pur nei confini del nostro personalissimo mondo ordinario, e anche infelici.
Perché?
Sappiamo benissimo che ciò che ci rende felici, oltre a soddisfare i nostri bisogni primari, è avere relazioni sociali di qualità. Invece, nonostante le 6 ore e i 49 minuti che ogni giorno trascorriamo connessi, nonostante abbiamo sempre in tasca la porta d’ingresso al nostro network di relazioni, non siamo felici ma preoccupati. Secondo una recentissima ricerca di GlobalWebIndex, infatti, a livello globale la preoccupazione sul modo in cui la tecnologia si è radicata nella quotidianità delle nostre vite è cresciuta notevolmente: se nel 2013 a ritenere che ci stia complicando e non poco la vita, era un quarto della popolazione internet, nel 2019 lo pensava un terzo. Più in fretta ne diverremo consapevoli, più ne godrà il nostro pianeta. Avere piena consapevolezza di cosa ci rende veramente felici e soddisfatti è un mezzo di difesa per liberarci dalla trappola in cui siamo caduti. Una trappola che ci ha portato ad avere relazioni umane mediate da strumenti tecnologici che tolgono all’uomo la sua centralità. È questa consapevolezza che qualche anno fa mi ha spinto professionalmente a puntare sui valori a svantaggio dei prodotti o, per dirla meglio, mi ha spinto a sfidare una convinzione ancora oggi dura da scardinare. Come più e più volte ho avuto modo di dire, dovremmo tenere sempre a mente che «la gente dimenticherà quello che hai detto, dimenticherà quello che hai fatto ma non si dimenticherà di come l’hai fatta sentire». Che a farci caso, quella user experience di cui oggi ci si vanta tanto e tanto si parla, non è altro che la vita la quale da sempre è experience (esperienza), siamo noi che invece ci siamo lasciati distrarre e continuiamo a credere che sia fare esperienza di prodotti, servizi o piattaforme digitali.