In ore come queste potrebbe sembrare inappropriato polemizzare con il Presidente del consiglio dei ministri. Ma proprio in questi frangenti possono passare come ovvie cose che ovvie non sono e, soprattutto, non dovrebbero diventare senso comune, quelle cose che si pensano perché non si può pensare diversamente.
Per questo vorrei attirare l’attenzione su un’affermazione che ha fatto il professor Conte nella chiacchierata con Marco Galluzzo pubblicata oggi sul Corriere della Sera. E se sono parole dal sen fuggite sono ancora più pesanti.
Il professor Conte dice che in questa situazione la politica ha «doverosamente ceduto il passo alla comunità scientifica». Il professor Conte torna alla visione che lo aveva guidato nei giorni della sottoscrizione del “contratto” con Salvini e Di Maio. Quel metodo definito pomposamente rivoluzionario in sé. L’idea che si possa risolvere il conflitto politico con la firma di un contratto civilistico con tanto di arbitrato e foro competente per dirimere le controversie.
Torna cioè l’idea di sostituire la politica con una qualche forma di tecnica. Che è poi una delle fonti più prolifiche di quel filone di antipolitica che scava come un fiume carsico il nostro sistema istituzionale italiano almeno dall’inizio degli anni 90 e sostiene la crescita del populismo nostrano.
Ma cedere ora il passo oggi vuol dire che finita l’emergenza la politica dovrebbe riprendere una sorta di superiorità sulla scienza e le altre competenze? E se poi da una emergenza sanitaria ci trovassimo in una emergenza economico finanziaria (del tutto probabile e sempre possibile) anche in quel caso si dovrebbe cedere il passo alla comunità scientifica del settore, agli economisti? Ma allora in quali condizioni la competenza politica dovrebbe e potrebbe esercitarsi legittimamente?
Bisognerebbe che chi ne riconosce ruolo e funzione ribadisse che, nel nostro tempo, la politica non ha (non può avere) alcuna primazia da cedere perché non può più avere l’ambizione di essere al vertice dei saperi. Ma non per questo annulla il proprio ruolo e la propria funzione. Certo, tra gli operatori dei media e nel mondo politico, c’è ancora qualcuno che pensa che possa esistere (o che rimpiange) la politica, quella sempre scritta con la P, che sovra ordina le altre competenze. Che quindi può dire quali romanzi scrivere, come dipingere un quadro, che film girare, che mondo pensare.
Ma la politica del nostro tempo, se deve mettere da parte quella arroganza, non può non difendere il proprio ruolo, la propria funzione. Deve essere consapevole di vivere l’epoca delle penultime verità, della complessità che moltiplica discipline e competenze. Deve sapere di non sapere mai abbastanza, di dover decidere in clima di incertezza e con informazioni insufficienti per definizione. Deve viversi come una competenza tra le altre, ma pur sempre una professionalità essenziale, quella di saper decidere sollecitando e organizzando i saperi che non ha non per limite ma per la propria stessa natura. Non cede sovranità né si sostituisce alle comunità scientifiche, perché si propone di organizzarle, governarle. E questa è una competenza essenziale per tener in equilibrio il sistema sociale in un contesto democratico, l’unica che può fare in modo che i conflitti possano essere composti e non degenerino in guerre.