Quasi tutti a casaGli italiani all’estero e quel confine sottile fra prevenzione e discriminazione

Oltre tremila i rimpatriati. Ma qualche connazionale lamenta disagi e scarso aiuto da parte di ambasciate e consolati. Una turista in Vietnam è stata respinta dagli hotel del posto perché proviene dal Belpaese e costretta a rientrare anticipatamente dalla sua vacanza

Nhac NGUYEN / AFP

Sono centinaia o forse più i concittadini che, al momento dello scoppio dell’epidemia di coronavirus, si sono trovati all’estero senza sapere come rientrare, complice la chiusura degli aeroporti e le restrizioni in atto in molti Paesi. Secondo Luigi Di Maio, sono oltre tremila quelli già rimpatriati; il ministro degli Esteri assicura che presto il governo li riporterà tutti a casa. Alitalia ha già predisposto un piano di recupero con collegamenti per gli aeroporti rimasti aperti nel resto del mondo, in alcuni casi con scali tecnici preventivi per effettuare un cambio di equipaggio. Ma per il momento molte tra le persone bloccate lamentano disagi e scarso aiuto da parte di ambasciate e consolati. Non solo. La difficoltà di trovarsi all’estero da italiani, oltre a essere logistica ed economica (e pure psicologica), è che talvolta si sfiora la discriminazione.

È ciò che è successo ad Arianna Griffa, 29enne italiana di stanza a Birmingham, partita qualche settimana fa per un viaggio nel Sud-est asiatico di tre settimane insieme a un’amica. «All’inizio, nonostante il problema del coronavirus fosse già emerso in Asia, non abbiamo avuto problemi, né con i voli né con gli spostamenti locali», racconta a Linkiesta. «Avevamo già un itinerario prestabilito e le prenotazioni negli hotel. Poi a un certo punto, mentre eravamo a Ho Chi Minh ospiti in un Airbnb, il proprietario dell’appartamento ci ha chiamato e ci ha imposto di andare via, perché la polizia aveva minacciato di arrestarlo, visto che stava ospitando delle italiane».

Il razzismo che prima era stato rivolto ai cinesi e agli asiatici in genere qui dalle nostre parti (se oggi si applaude al grande senso civico degli italiani nel rimanere a casa, non si dovrebbero dimenticare le scene pietose di qualche settimana fa di turisti cinesi insultati mentre passeggiavano) – si rivela così una sorta di boomerang in quegli stessi Paesi. Non sono soltanto gli italiani a non essere benvoluti: anche iraniani, cinesi ed europei in generale sono visti da più parti nel continente come soggetti pericolosi, perché potenzialmente portatori dell’epidemia.

In Vietnam la situazione è delicata perché un volo atterrato da Londra su cui si trovava una passeggera positiva al virus, di fatto ha riportato il rischio di contagio tra la popolazione, vanificando gli sforzi fatti per arginare la sua diffusione nel Paese. «Ci siamo ritrovate praticamente per strada, nessun hotel voleva accettarci», racconta ancora Griffa, che ha dovuto lanciare un appello su Facebook per cercare qualcuno che potesse ospitare lei e l’amica. Nemmeno il console italiano ad Ho Chi Minh è stato di aiuto. «L’abbiamo contattato per cercare assistenza e ci ha semplicemente detto che era al corrente di questa situazione avendo ricevuto altre chiamate da italiani, ma non sapeva come aiutarci». Agli occhi delle autorità locali, poco importava che le due ragazze fossero nel Paese già da 14 giorni, che provenissero dal Regno Unito e che fossero pure disponibili a farsi portare in ospedale per farsi testare per il virus. «I receptionist degli hotel erano mortificati, giustamente avevano paura che la polizia chiudesse l’hotel come avevano minacciato, però di fatto siamo state discriminate solo sulla base della nazionalità scritta sul passaporto», puntualizza Griffa.

Uniche cose ottenute dal console, il numero di un ragazzo italiano che in città gestisce un locale – «L’abbiamo contattato e ci ha offerto di rimanere nella sua pizzeria dopo la chiusura», dice Griffa – e la raccomandazione di andare via il prima possibile. «Il nostro volo di rientro però era da Bangkok e, avendo la Thailandia cancellato i voli verso l’Europa, non eravamo più sicure di poter partire da lì», aggiunge la giovane.

Una situazione surreale, dove in maniera simile a quanto successo in Italia con i cinesi, anche lì non si sono fatte distinzioni tra stranieri residenti e turisti. «Durante la prima settimana in Vietnam abbiamo incontrato degli amici che vivono lì da diversi anni, e ci raccontavano di essersi ritrovati la polizia che bussava alla loro porta per fargli delle domande», racconta Griffa.

Lì dove la paura del contagio è normale che porti a effettuare più controlli possibili, adottando tutte le misure necessarie a contenere la diffusione del virus, il rischio è però che il confine tra prevenzione e discriminazione si assottigli fino all’incapacità di poter distinguere tra l’uno e l’altro. Posto che molti paesi asiatici, memori di epidemie come la Sars, sono stati più pronti (o almeno così pare) a contrastare la diffusione dell’epidemia, un simile approccio potrebbe forse anche avere una sua legittimità. Ma rimane aperta la domanda se il fine giustifichi sempre i mezzi, dove qui per “mezzi” non si intende tanto il disagio che ragionevolmente può provocare il vedersi chiudere in faccia le porte degli alberghi, quanto il fatto che potenzialmente qualsiasi genere di violazione possa diventare all’improvviso legittima, anche a costo di scavalcare ogni altra considerazione circa il benessere delle persone (ovvero avere un tetto sopra la testa per trascorrere la notte, per esempio, oppure quello di non infettare altri, nel momento in cui si rimane per strada).

Già si è parlato di come sia andata in Cina, dove le tecnologie di riconoscimento facciale e di tracciamento degli spostamenti dei cittadini tramite gps si sono dimostrate efficacissime per tracciare l’evoluzione del contagio ai fini del contenimento. Ma questo controllo totale ha l’effetto di proseguire e legittimare ancora di più le critiche a un regime totalitario, nel quale non esiste privacy, né alcuna possibilità di esprimere un’opinione che sia in dissenso rispetto al potere. Certo, il Vietnam non è la Cina e, in termini sanitari, sono solo gli esperti ad avere titolo per dibattere quali misure debbano essere adottate e come implementarle. Ma di certo vale la pena interrogarsi su quale sia un confine accettabile tra il bene pubblico e i diritti individuali, e su quanto possiamo essere disposti a sacrificare come persone almeno qualcuna delle nostre libertà, se serve per una buona causa, come ha scritto Francesco Cundari lunedì su Linkiesta.

Griffa alla fine è riuscita a rientrare nel Regno Unito con un altro volo che ha fatto scalo a Doha (in questo caso, la Brexit le è stata utile perché l’aveva messa in possesso di uno speciale certificato di residenza sul suolo britannico). In aeroporto non ci sono stati controlli, né operatori con la mascherina o una misurazione della temperatura. Bensì una rischiosa teoria sull’immunità di gregge.

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