Giuseppe ImbalzanoL’ex direttore sanitario spiega che cosa è successo a Bergamo e a Codogno

A capo di Asl lombarde per 17 anni, racconta a Linkiesta come si è creata la situazione drammatica che stiamo vivendo e perché nei reparti servono stanze a pressione negativa

Giuseppe Imbalzano è stato direttore sanitario di Asl lombarde per 17 anni. Melegnano, Lodi, Bergamo e Milano sono state delle seconde case, e mai in vita sua, spiega a Linkiesta, si sarebbe immaginato di vederle in queste condizioni. L’emergenza coronavirus ha messo sotto stress le strutture ospedaliere della Lombardia con un numero sempre maggiore di malati. Una situazione straordinaria, alla quale però «si fondono i problemi non risolti in principio perché mancava un piano di intervento e di programmazione adatto al contrasto di questa nuova infezione».

Dottor Imbalzano, la Cina focolaio dell’epidemia ha quasi debellato del tutto il virus, mentre in Italia ogni giorno la situazione si aggrava in modo inquietante. Cosa è andato storto nel nostro Paese?
La malattia, una infezione aero-trasmessa, è di per sé molto pericolosa per facilità di trasmissione e per la natura stessa del virus, nuovo per la nostra popolazione. Colpisce tutti coloro che ne vengono a contatto. Era già presente a gennaio, come è stato scoperto, prima che ci fossero gli allarmi dell’Organizzazione mondiale della Sanità e i relativi interventi di sospensione dei viaggi provenienti dalla Cina. La sensibilità dei medici di Codogno ha consentito una prima diagnosi “italiana”, ma già esistevano altre persone che avevano contratto l’infezione per un contagio con il primo diagnosticato. Purtroppo si è visto anche del personale dell’ospedale, considerato che il malato era già stato visitato precedentemente nello stesso nosocomio.

Quindi?
Il pronto soccorso di Codogno ha una sala d’attesa mista, e questo, purtroppo, ha creato una condizione ambientale particolare. L’infezione ha determinato altri infetti che poi a loro volta hanno creato un cluster infettivo non piccolo.
Se ci fosse stato un ambiente indipendente e separato, dedicato ai pazienti con patologie infettive, la situazione sarebbe stata meno impegnativa successivamente. I ricoveri sono stati poi effettuati in altri ospedali mentre in Cina ne hanno costruiti destinati unicamente per malati infettivi, evitando la commistione con pazienti e personale non preparato o protetto.

Il caso di Bergamo come si spiega?
A Bergamo pare che sia accaduto la stessa cosa di Codogno. In questi 30 giorni, certamente per necessità, sono stati trasferiti pazienti nei reparti e in particolare nelle terapie intensive affetti dall’infezione. Questo ha determinato, come indicato dall’assessore Giulio Gallera, nell’intera Regione, il contagio del personale sanitario che ha raggiunto il 12% degli infetti regionali. Per loro natura i medici svolgono attività clinica e di conseguenza il virus si è mosso su quegli operatori di primo soccorso – che per giunta non erano adeguatamente protetti -, i quali hanno uno caratteristica predominate: visitano un paziente per poi passare a un altro. Dando così vita a un incendio sparso e parallelo.

Senza contare che all’inizio del contagio veniva consigliato di rivolgersi al medico di base
Invitare i cittadini ad andare dal proprio medico di fiducia, senza considerare che questa è una infezione particolare e certamente molto delicata, non ha aiutato a ridurre il rischio di infezione. Anche qui molti medici sono stati infettati dai loro assistiti e purtroppo la diffusione ha avuto altri elementi di sviluppo. I medici, oltretutto, non avevano disponibilità di strumenti di protezione individuale e questo ha creato ulteriori difficoltà. E purtroppo devo dire con grande dispiacere personale, che amici carissimi sono deceduti per l’infezione.

Bisogna comunque considerare l’imprevedibilità di questa emergenza
Le emergenze non si annunciano mai per loro natura. Questa è collegata all’infezione in atto in Cina. Le azioni messe in atto in Italia (l’identificazione, secondo protocolli, per tutti i passeggeri, della ‘passenger locator card’ oltre allo scanning termometrico per i passeggeri atterrati) sono state attuate in ritardo per l’arrivo dell’infezione. Ci sono i cosiddetti “piani pandemici”. Nel 2010 per l’influenza Aviaria tutto era stato preparato, anche nella stessa Bergamo dove io operavo in quegli anni. Avevamo adibito palestre e altri ampi spazi per ricevere i pazienti così come le salme. Fortunatamente fu di lieve entità, ma era comunque tutto pronto per cercare almeno di contrastare un’ondata anche violenta che fosse.

Per lei è stata sottovaluta la forza di questo virus?
Non credo che sia stata sottostimata la pericolosità del virus da parte degli addetti ai lavori. Molto è venuto dalle informazioni provenienti dalla Cina e senza chiarire i problemi che avrebbe potuto comportare. Oltretutto i malati in Cina erano mediamente più giovani e hanno creato l’illusione che non fosse una infezione di estrema gravità. La nostra popolazione, invece, ha una età mediamente più alta con problemi di salute molto diffusi. Tuttavia, lo sapevamo che in un modo o nell’altro il coronavirus sarebbe arrivato.

C’è un modo per arginare ulteriormente il contagio?
Prima si poteva formare un task force di poche persone, protette in maniera adeguata, in grado di agire a domicilio su quei casi che mostravano i primi sintomi. Adesso queste persone hanno bisogno di ambienti a pressione negativa: significa che devono stare in dei luoghi dove è presente un’aspirazione, così da evitare che il virus vada in giro. A differenza dei pazienti sottoposti a pressione positiva, ovvero di quei malati con uno stato immunitario molto basso che non possono ricevere ne virus ne batteri, i contagiati da covid-19 non dovrebbero far fuoriuscire virus e batteri. Solo grazie a stanze a pressione negativa in grado di aspirare tutto ciò che c’è dentro (respiro, tosse e via dicendo) all’infezione viene impedito di circolare nelle strutture ospedaliere. Ad oggi, in molti ospedali italiani questi luoghi non sono presenti. Bisogna quindi controllare innanzitutto se ci sono ancora situazioni simili, e solo all’indomani di questi accorgimenti si potrà pensare a un picco e alla successiva decrescita dei contagi. 

Tra quando pensa possa registrarsi il picco?
Se modificheremo sostanzialmente la risposta attuale ci vorranno 4 settimane per avere una risposta della comunità. Oggi la presenza di focolai negli ospedali purtroppo non consente di garantire una certezza nell’eliminazione delle fonti di infezioni.

Quali sono le soluzioni più attuabili in breve tempo?
Purtroppo gli ospedali da campo e i nuovi reparti di terapia intensiva in costruzione sono fondamentali per il fattore numerico, ma per limitare e definire i focolai di Bergamo e di Brescia, ad esempio, serve dividere gli ospedali e mettere i positivi al Covid in singole strutture. Così da non avere più il problema della gestione ambientale; il personale naturalmente deve essere garantito per sicurezza, e i malati, tutti affetti dalla stessa patologia, devono essere seguiti senza la preoccupazione di trasmettere la patologia.

Potrebbe essere utile allargare la platea soggetta a tampone?
I campioni sono positivi solo se la persona ha in atto la malattia. Quelli che hanno avuto dei contatti e non sono positivi potrebbero diventarlo il giorno dopo. Fare i tamponi a iosa non serve a niente: i cinesi lo hanno fatto su un numero enorme di campione e solo lo 0,2 per cento è risultato positivo. Non serve a niente per quanto riguarda la malattia, bensì per individuare tutti i casi espositivi e isolarli. Oggi è troppo tardi per farlo, siamo nella pieno dell’epidemia. Sembra impossibile che siano fatte le necessarie indagini epidemiologiche (analisi dei contatti etc.) sui singoli casi e che vengano determinati solo i nuovi casi patologici. Bisogna modificare il modello con cui si trovano i positivi togliendo il divieto di individuare il nominativo dei malati. Così i loro contatti potranno andare nei centri idonei per le verifiche del caso.