La nomina dell’economista Mariana Mazzucato, nuovo consigliere economico del governo, racconta molto di come stia cambiando il Partito democratico. E il fatto che Mazzucato sia stata chiamata a Palazzo Chigi da Giuseppe Conte rafforza il dato. Osservare le mosse di Conte serve a capire come intende muoversi il Nazareno, che ha deciso di legare il proprio destino, almeno in questa legislatura, a quello del presidente del Consiglio. Non è un caso che Nicola Zingaretti abbia elevato Conte a punto di riferimento dei progressisti, tanto da proporlo come guida del centrosinistra alle prossime elezioni politiche.
Il calcolo ha una sua coerenza: Conte è il politico più apprezzato dagli italiani (48%), come dimostra l’ultimo sondaggio Ipsos pubblicato dal Corriere domenica 1 marzo, e questa popolarità si riscontra anche nelle visite del premier in giro per il paese. Giovedì 27 febbraio, prima di incontrare Emmanuel Macron per visitare il teatro San Ferdinando di Napoli, Conte si è fermato a parlare con i residenti del rione Sant’Antonio Abate, zona popolare della città. I residenti lamentavano l’assenza delle istituzioni e la celerità con cui il Comune aveva ripulito e riparato piazza Eduardo De Filippo soltanto per l’arrivo di Conte e Macron. Il presidente del Consiglio, applaudito al suo arrivo, ha ricevuto una lettera con le richieste del quartiere e si è fermato a parlare in particolare con la signora Nunzia, una sorta di portavoce del rione: «Mi sembra una persona seria», ha detto lei, lamentando invece l’incapacità della «politica». Come se Conte fosse altro.
E in effetti lo è: è il punto di incontro tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico, in un’alleanza più culturale che politica. Questo ruolo è dimostrato anche dai tentativi del Pd di trovare figure che rappresentino un ponte tra le due tradizioni, da ricercare in figure non politiche ma di «area»: bollino di sinistra doc come Sandro Ruotolo, eletto dai dem alle suppletive del Senato a Napoli; aurea di giustizialismo certificato come Ferruccio Sansa, probabile candidato di coalizione tra Pd e 5 Stelle alle elezioni regionali in Liguria. Tutto sotto l’ombrello rassicurante di Giuseppe Conte, che incarna un profilo politico sufficientemente vago da far dimenticare alla sinistra la presentazione dei decreti sicurezza con Matteo Salvini. La figura di Conte attira un mondo composito: Mariana Mazzucato da Londra, la signora Nunzia dal rione Sant’Antonio Abate, i giornalisti candidati Sandro Ruotolo e Ferruccio Sansa.
Anche Elly Schlein, record di preferenze alle ultime elezioni regionali in Emilia Romagna, è un tassello di questa ricomposizione. Non è iscritta al Pd, che lasciò in polemica nel 2015, ma fa certamente parte del «campo largo» evocato dal segretario Nicola Zingaretti. E ha un obiettivo: recuperare consenso laddove il Pd non riesce più a convincere gli elettori, cioè nelle periferie e nelle aree lontane dai centri urbani. Tuttavia la sua lista, che pure ha ottenuto un ottimo risultato, ha lo stesso difetto. I consensi nei centri cittadini sono molto elevati e compensano le difficoltà riscontrate altrove. Nel comune di Ferrara il partito di Elly Schlein raggiunge il 5,4%, un dato che cala al 3,06% se si considera tutta la provincia. Trend simile a Bologna: 8,7% all’interno delle mura cittadine, 6,06% in tutta la provincia.
È interessante il trattamento ricevuto da Piazzapulita su La7 nella puntata del 20 febbraio. Schlein è andata in onda per circa quaranta minuti, prima in un’intervista singola con il conduttore Corrado Formigli, poi in un confronto con un’altra personalità politica, in questo caso Riccardo Molinari della Lega. Uno spazio televisivo identico a quello riservato a Giorgia Meloni, che tuttavia è il leader politico di Fratelli d’Italia, secondo partito di opposizione e in grande ascesa nei sondaggi. Segno dell’attenzione di un mondo che si riconosce nell’area progressista. Piazzapulita è un talk particolare, si occupa spesso di politica estera ed è seguito da un pubblico laureato, benestante, che viaggia molto. Esattamente l’elettorato dei centri storici.
Secondo l’Economist, il Labour party è «ossessionato» dall’appartenenza di classe, e i suoi nuovi leader cercano di ricordare in tutti i modi le loro origini, spesso working class. Il settimanale britannico mette in guardia la sinistra dalla sindrome del «lennonismo», la fascinazione per un’idea di classe operaia che non esiste più cantata dall’ex beatle: «Working class hero is something to be». L’atteggiamento è poco costruttivo, perché «acceca il Labour rispetto ai grandi cambiamenti in corso nella struttura della società britannica. Se nel 1987 il 62% dell’elettorato era working class, oggi la percentuale è del 42%».
Il rischio, per il Pd, è simile: scegliere personalità come Schlein, Mazzucato, Sansa e Ruotolo per riuscire a intercettare una tipologia di elettorato sempre meno presente anche in Italia, dove il consenso è ormai liquido e altalenante. Lo dimostrano i risultati del Movimento 5 Stelle, che in poco meno di due anni ha dimezzato i suoi voti o del Pd guidato da Matteo Renzi, passato dal 40% delle europee 2014 al 18% delle politiche 2018. Si può fare affidamento su blocchi sociali, ammesso che esistano davvero, che si sfaldano così rapidamente?
Se l’obiettivo è galvanizzare lo zoccolo duro che continua a dare fiducia al Pd, che resta al 20% nonostante due scissioni, potrebbe essere la strada giusta. Allargare la base e vincere le elezioni è un’altra cosa, ma forse in tempi di proporzionale vincere non conta più.