Le conseguenze del virus Il coronavirus fa più paura degli anni di piombo: lì si poteva reagire insieme, adesso siamo soli

La casa è diventata la nostra trincea, inconsapevolmente stipiamo cibo nelle credenze, ammonticchiamo saponette e igienizzanti, sentiamo gli amici dicendoci sempre le stesse cose, tv e rete ci aiutano senza aiutarci, ci spiegano senza spiegare. Non c’è una parrocchia, non c’è una sezione dove andare

AFP

L’ultima volta che ho avuto paura, paura di farmi molto male o di morire o qualcosa di simile, è stata negli anni del terrorismo. Fine anni Settanta-primi anni Ottanta, a Roma. Nella memoria involontaria che dorme nel profondo, come aveva capito Proust, si forma uno dei nostri tanti “io”, e nel mio “io” di ora riaffiora l’ansia di quei tempi là, quando la paura di uscire batteva un tic tac continuo nel cervello. La paura di uscire era la paura della libertà, una contraddizione un po’ animalesca, tipica di tempi eccezionali sospesi fra un prima felice e un dopo sconosciuto. Come oggi. Avevo paura, avevamo paura, anche se facevamo chi più chi meno la parte dei buoni contro i cattivi, come nei western con Henry Fonda, il “buono” per eccellenza. I “cattivi” erano ovunque e in nessun luogo, esattamente come il coronavirus. Erano ovunque, perché quelli che menavano, fossero fascisti fossero autonomi, erano in tanti davanti al famigerato bar, nei pressi della nota edicola, sul portone della scuola, stravaccati sui gradini di Fisica o Legge, nella piazza “nera” di Prati come nella stradina “rossa” di San Lorenzo. Dalle mie parti un bruttissimo piazzale divideva di netto un quartiere di sinistra da un altro di destra, una specie di check point all’amatriciana al di là del quale si poteva finalmente tirare un sospiro di sollievo.

Come tantissimi coetanei una volta toccò a me, mi menarono brutto e io avevo e ho molta paura delle botte, del dolore fisico. Mi guardavo sempre intorno. Mario Moretti e gli altri assassini portarono via Aldo Moro passando letteralmente sotto casa mia; al giudice Minervini spararono a duecento metri da scuola, lui abitava nello stesso palazzo di una mia compagna di classe. Il padre di uno dei miei migliori amici era un alto funzionario della Digos, «non vi esponete», ci diceva. Leggevo la paura negli occhi dei miei genitori, «non andare», ma poi ci si andava, alle riunioni, ai cortei. La paura di uscire di casa è tremenda, chi sono quei tipi sulle moto? Non so bene come sia in guerra ma immagino che più o meno si sappia dove sta il nemico.

Ma dov’era in quei giorni? Persino i brigatisti erano fra noi, chiunque poteva esserlo, il taciturno scapolo della porta accanto, l’impiegata timida dell’ufficio, lo studente più grande che ogni tanto spariva. Il sospetto era una patina sottile e velenosa che avvolgeva i corpi di ciascuno e di tutti, il necessario aguzzare la vista per capire se la strada fosse libera si mescolava ai tintinnii di roteanti catene di motociclette, al crash delle vetrine, all’urlo delle sirene della polizia. La paura di uscire, cioè di entrare in un mondo assurdo di odio e violenza era la cifra di quei giorni che rimbalza come un’eco lontana fino a questi giorni qui.

Non usciamo di casa, e se usciamo torniamo subito, prima che il nemico ci afferri, come allora. Fra poco, temiamo, non sapremo più bene cosa dire, esattamente come nei 55 giorni, scanditi da notizie orrende lungo un capitolo di cui non si vedeva la fine e a tavola si stava zitti.

Oggi è pure peggio, senza dubbio. Prima almeno si poteva reagire tutti insieme, ora siamo soli en face al virus sconosciuto e senza un perché – allora un perché c’era seppure pazzesco – come capita al malato di quella commedia di Dino Buzzati che scende inesorabilmente di piano al progredire del suo male ignoto. La casa è diventata la nostra trincea, inconsapevolmente stipiamo cibo nelle credenze, ammonticchiamo saponette e igienizzanti, sentiamo gli amici dicendoci sempre le stesse cose, tv e rete ci aiutano senza aiutarci, ci spiegano senza spiegare. Non c’è una parrocchia, non c’è una sezione dove andare. Non vediamo l’ora di tornare al cinema, alla vita normale. Aspettiamo che passi, come all’epoca il terrorismo. La frase che abbiamo nella testa è sempre la stessa: quando finirà? Si vinse, quella volta, aggrappiamoci a questo. Stiamo con i medici come ieri stavamo con i poliziotti, che ci liberino dal male, amen.