Non siamo noi italiani medi che siamo diventati virologi, sono i virologi che sembrano diventati italiani medi. Imbalsamati nelle loro parti, gli scienziati non hanno più niente da dire. Ripetono le stesse cose, stancamente, da settimane: più o meno siamo ancora al lavatevi le mani e al non abbassare la guardia. La mediatizzazione li ha danneggiati in tempi record, più degli opinionisti a contratto e dei mezzi filosofi che imperversano sulle reti tv; il teatrino dell’informazione, anzi, dell’infotainment, gli ha aperto le porte all’improvviso e loro si sono lasciati un po’ sedurre. Finito il primo atto, quello nel quale tutti noi pendevamo dalle loro labbra, adesso gli scienziati balbettano, si contraddicono, imitano se stessi.
D’altronde, Roberto Burioni, l’Autorevole, ieri sera da Fabio Fazio lo ha detto – «non possiamo dare certezze» – e dal suo punto di vista non aveva torto: ma ormai tutto lo spiegabile è stato spiegato, arrivederci alla prossima. Mentre Walter Ricciardi, il Politico, sempre ieri sera ha detto che «si sta lavorando a un grande piano per il tracciamento sierologico» bene, benissimo, attendiamo il “grande piano” come i sovietici negli anni Trenta, e speriamo non sia quinquennale. Ricciardi è un altro che in questi giorni ripete cose ovvie fra un inciampo e un altro (mettersi contro il presidente degli Stati Uniti non è esattamente il suo mestiere), è consulente di Speranza, di Calenda, dell’Oms, uno che si espone molto e che cammin facendo ne ha sparate di grosse: dalla previsione del contagio al Sud all’inutilità dei tamponi agli asintomatici.
Giovanni Rezza, il Flemmatico, ha sostenuto che la battaglia non è vinta e che «il virus continuerà a circolare» e alla domanda sul che fare risponde: «Non lo so». Ma insomma andiamo avanti con la guardia alta, che non si sbaglia. Massimo Galli, Il Saggio, ha affermato fin dall’inizio che bisognerebbe rafforzare la medicina del territorio: ma qualcuno ha fatto qualcosa, di grazia? Il Saggio non lo dice ma è abbastanza stufo. Potremmo continuare con il volto fiero e dolente di Ilaria Capua che ogni martedì da Giovanni Floris (ogni conduttore che si rispetti ha il “suo” scienziato) correttamente ci ripete che si tratta di un virus nuovo che ancora non conosciamo ma che si sta facendo il massimo eccetera eccetera.
Capua è la Fatina buona che trova sempre le parole che vogliamo sentirci dire prima di dormire, mentre Andrea Crisanti, che alla fine sembra quello che ci ha capito più di tutti, predica coerenza, rigore, onestà intellettuale e dice di un suo dubbio terribile, che forse il vaccino non ci sarà e lo dice con il piglio nervoso dell’Incompreso. Sul polo opposto – calma e gesso – si colloca il Prevedibile Silvio Brusaferro, un centrista di razza; e soprattutto l’Intellettuale, Franco Locatelli, che avviluppa le sue comunicazioni dietro un forbito è quasi ottocentesco eloquio “moroteo”, e anche Fabrizio Pregliasco, sin qui il Mite, che ieri da Massimo Giletti ha dovuto affrontare Sgarbi-Hannibal Lecter riuscendo nell’inaudita impresa di ottenerne le scuse.
Ognuno ha il suo leit motiv drammatico, come in Wagner. Ma ora siamo arrivati come a un punto morto: l’epidemia cala, la curva scende, le terapie intensive si liberano, si vede l’uscita dal lockdown. Ma si entra in un altro tunnel. I medici sin qui hanno avuto gioco relativamente facile: chiudere tutto, isolare, curare. Ma adesso che si aprirà? Boh. Ovvietà, balbettii.
Non si sa se chi è guarito è anche immune, non si sa se si faranno e come i test sierologici, meno che mai è chiara questa cosa dell’app “Immuni”- il rischio del flop è dietro l’angolo per impossibilità pratica e per giusta gelosia della privacy -, non si sa se mascherine e tamponi basteranno, non si sa come distanziare le persone sulle metropolitane, non si sa il caldo ucciderà il virus, non si sa se ci sarà una seconda ondata. E via dicendo. Il leggendario comitato tecnico-scientifico pare boccheggiare, limitandosi a generici appelli alla prudenza e lasciando nuda la politica.
Questa stanchezza degli scienziati è la fotografia di uno stadio della lotta contro un nemico eccezionalmente forte, se non fosse un virus lo definiremmo diabolico: i loro occhi guardano attorno e non vedono davanti a sé una strada illuminata ma solo le ombre del dubbio. Così noi, stravaccati sui nostri divani usurati da settimane di reclusione a casa, non li accogliamo più come oracoli di Delfi, li ascoltiamo distrattamente, fra un po’ questi danneggeranno l’audience, hanno già più che dimezzato le conferenze stampa delle 18. Ed è come se corressero i titoli di coda di un film con grandi divi che sembrano già appartenere al passato.