L’identità di un luogo finge di essere compatta, ma la sua mai definita costruzione procede per continui scossoni, invisibili nervature che più che irrorarla la erodono dall’interno; a volte, per ribaltare una cristallizzazione, serve che quel rovesciamento sia insistito fino allo spasimo: perché il cliché si incrini, può non bastare una raffica di colpi di cannone.
Da più di un secolo, Messina, la mia città, muore nella sua immagine reiterata di città in declino. Da quando è stata distrutta dal terremoto del 1908, sembra non potersi sottrarre al rimpianto: era così bella, e invece…
Così, quando ho visto Cruel Peter, il film che da qualche giorno è disponibile on demand su Amazon UK (per la versione italiana dobbiamo aspettare, anche se è stato presentato in anteprima a Taormina, la scorsa estate), oltre a essermi divertita (e spaventata) tantissimo, ho provato innanzitutto sollievo e gratitudine. Lo sguardo dei due registi che l’hanno concepito la faceva uguale alla sua immagine, sì, era lei, la città sullo Stretto che conosco da sempre; ma era anche qualcos’altro, qualcosa di diverso, era diventata finalmente uno scenario aperto a una storia che trovava il suo fondamento nell’appartenenza a un genere.
Quando il genere è così forte, come l’horror, può esserlo anche il suo contributo nello svuotamento del cliché. Cruel Peter l’hanno diretto Christian Bisceglia, messinese, e Ascanio Malgarini, che invece non lo è: riflette il loro sguardo strabico, la loro poetica bifronte, uno sguardo che può vagare sui due mari e mostrarsi innamorato di acque e luoghi senza però scadere nel compiacimento. Quanto sia gotica Messina, in genere si dice poco; quanto sia anomalo il suo profilo di guglie e punte, quanto sia ceruleo e glaciale il suo cielo nei giorni d’autunno, quanto nordiche possano essere le sue acque, come se i normanni, conquistandola, avessero portato giù pure quelle.
Cruel Peter svela una città misterica che ostenta infine i suoi abissi, la sua paura e il suo rimosso. Una Messina umbratile, gotica, spaventosa, mortifera, resistente ai suoi drammi e ai suoi sismi ma anche a sé stessa, alla sua leggenda, alla sua gloria un po’ stantia di città ormai distrutta e finita in polvere.
Il film collega il presente a un curioso, inquietante fatto di cronaca avvenuto nei giorni intorno al terremoto del 1908, e il set somiglia a un porto del Baltico più che a un approdo mediterraneo. Una Messina così estranea a sé da poterci ambientare una fiaba nera come quelle che siamo abituati a vedere in lontane periferie d’America, e allo stesso tempo così fedele a sé che quella fiaba non poteva che svolgersi nel cimitero monumentale, il cuore della città.
È la storia di un archeologo, Norman Nash, chiamato a ristrutturare le tombe inglesi del cimitero; Norman ha con sé la figlia adolescente, Liz, che dopo la perdita della madre è diventata muta. La loro storia si intreccia a quella di Peter, rampollo di una famiglia inglese, ragazzino viziato e dispotico, che all’inizio del Novecento torturava e seviziava ogni creatura gli capitasse sotto tiro. Di Peter e della sua scomparsa non si è più parlato, almeno fin quando Norman si imbatte nella sua lapide, allora l’anima soprannaturale e dark del film si dispiega del tutto.
I colli, la statua della Madonnina, i traghetti come grandi carcasse, le notti allucinate traboccanti di forze oscure, l’inglese che si mescola al dialetto, la sofferenza, lo splatter, il dolore, l’eco dei maestri, da Profondo rosso ai B-Movie, dall’Esorcista a Lynch, se rapportato a una città su cui c’è poco da scherzare per la rovina in cui è stata lasciata cadere, ci dicono soprattutto una cosa: che bisogna scherzare proprio quando non c’è niente da scherzare.
Che dove c’è stata la morte, dove è passato il disastro, bisogna sedersi sulle macerie e mettersi a cantare, come fossimo dentro una fiaba della tradizione, con lo stesso gusto per il sangue, per il paradosso, per l’eccesso, per sentimenti popolari e vividi.
In Cruel Peter c’è un bambino che sembra un orco e c’è una ragazza che sembra una fata mutilata; ci sono un padre rabbioso e una famiglia labirintica; c’è un mistero incastrato nella cronologia di una disgrazia. C’è, soprattutto, la volontà di giocare, di divertirsi, di fare un film per il puro piacere di ribadire che da quella disgrazia sono passati cent’anni anche se ci siamo ancora seduti sopra.
È il momento di alzarsi, togliersela di dosso e immaginare una città diversa da tutte, perciò uguale a tutte. È un bel regalo che possiamo fare a Messina, consapevoli che in questo tentativo troveremo molta difficoltà, potremo imbatterci in un poco di incantata grazia e necessitiamo di un’incontrollabile dose di incoscienza.