Mangiavano di fretta e in marcia. Un tozzo di pane prima di un’imboscata, polenta o zuppe quando erano nelle case sicure e si poteva stare al caldo. Mangiavano quello che c’era e, quando si poteva, si stava tutti insieme. I partigiani combattevano e morivano ma non rinunciavano al piacere della tavola e ai piatti della tradizione. Le cuoche erano le donne, le autentiche guardiane del desco anche nei tempi più bui. Donne che improvvisamente diventavano madri, sorelle e mogli anche di sconosciuti. Un bello spaccato sulle abitudini culinarie nel periodo della Resistenza ce lo dà ‘’Partigiani a tavola’’, un libro di Elisabetta Salvini e Lorena Carrara pubblicato da Fausto Lupetti editore nel 2015, da pochi giorni uscito nella versione e-book. Raccoglie storie della letteratura, testimonianze e ricette, reinterpretando la guerra con una chiave di lettura particolare. Un libro che fa riflettere anche in questa pandemia. «Noi viviamo nell’abbondanza, quindi odio associare questa emergenza al periodo bellico», spiega Carrara, esperta di Cultura dell’Alimentazione, «ma ci sono alcune esigenze di quell’epoca che ricorrono oggi, come dover razionare il cibo, adattarsi a quello che si trova in casa. I partigiani dovevano mangiare le stesse cose per mesi dopo aver assaltato carovane che trasportavano un solo tipo di alimento».
Non siamo in guerra, vero, ma in questo momento d’emergenza anche noi abbiamo qualche limitazione: non possiamo andare sempre al supermercato e se manca qualcosa dobbiamo adeguarci. «La cosa paradossale è che la farina e il lievito erano, all’epoca, i prodotti più reperibili. Mentre il burro era più raro. Adesso è tutto il contrario». Con il trend delle pizze e paste fatte in casa, lievito e farina si trovano a fatica. «Anche io per comprare un po’ di lievito», ammette Carrara, «sono dovuta andare dal panettiere e l’ho preso sfuso». Quest’anno, per il 25 aprile, non si potranno fare scampagnate e ci si dovrà arrangiare in casa. Magari qualche pietanza partigiana, ripresa dal libro che raccoglie numerose ricette di cucina povera e contadina, potrà tornare utile a chi ha poca roba in frigo, vuole risparmiare, ma desidera comunque un buon pasto nel giorno della liberazione.
Antipasti
Il pane era il cibo più comune per i partigiani. Pane con salame o con il lardo: alimenti che si trovavano facilmente e che potevano essere conservati. I combattenti mangiavano camminando. Avevano bisogno di un pasto veloce e nutriente, che fosse un minimo gustoso, anche se freddo. Secondo Carrara l’immagine del pane consumato di fretta con affettati tipici di varie zone, come il salame cremonese, quello di Felino, o quello milanese, è un topos ricorrente in testimonianze e memoriali. Forse non la consuetudine più amata, perché l’esigenza di trovare calore intorno alla tavola era il momento più atteso. Allora, come in parte oggi, ci si trovava separati dai familiari e quell’affetto privato si ricercava nella brigata. «Quando i partigiani erano a tavola insieme, si annullavano le divisioni sociali, anagrafiche e politiche. Si divideva il pane con chi si aveva accanto: è da questo contesto che nasce l’uso del termine ‘’compagno’’», afferma la studiosa.
Primi
In ‘’Una questione privata’’, romanzo di Beppe Fenoglio, l’alter ego dell’autore, Milton, passa la notte prima di una missione in casa di una donna che, in mancanza d’altro, gli offre un uovo. Rammaricandosi di non poterlo trattare come le volte precedenti. «Le donne facevano di tutto per stare vicini agli uomini, anche sconosciuti», spiega Carrara, «spesso, quando spedivano gli alimenti sulle montagne con le staffette, scrivevano dei bigliettini di incoraggiamento, anche senza conoscere i destinatari». Una consuetudine che, pur con le dovute differenze, fa venire in mente ‘’Ci vediamo fuori’’, iniziativa diffusasi in queste settimane per consegnare lettere di solidarietà ai malati di Covid-19 negli ospedali. Le donne, quando avevano tempo, facevano di tutto per assicurare dei pasti lauti. Erano parte attiva nella Resistenza, come Agnese, protagonista del romanzo di ispirazione autobiografica di Renata Viganò, ‘’L’Agnese va a morire’’, ma preparavano anche la pasta fatta a mano. C’erano i cappelletti ‘’bastonati’’, chiamati così in Emilia-Romagna per le manganellate che i fascisti davano ai socialisti entrando nelle loro case il primo maggio, botte che, oltre ai militanti, colpivano anche l’impasto. I cappelletti venivano serviti in brodo. Ma poteva esser cucinata anche una più semplice pasta al burro, come quella che i sette fratelli Cervi, partigiani e contadini emiliani, offrirono al popolo affamato a Campegine (provincia di Reggio Emilia) per festeggiare la destituzione del duce nel luglio del ’43, prima di morire giustiziati dai fascisti lo stesso anno. Quell’evento della pastasciutta è diventata una ricorrenza celebrata ogni anno nel museo dei Cervi a Gattatico, paese in cui vivevano i fratelli.
Secondi
Una preziosa abilità femminile, soprattutto in tempo di guerra, era quella di saper assemblare e riutilizzare i pochi ingredienti a disposizione: un’eredità dell’educazione fascista, per cui la donna era essenzialmente una massaia. Questa condizione, oggi superata, aveva sicuramente un pregio: le donne cucinavano ottime frittate e sformati. Anche la polenta era un pasto molto consumato perché veloce e nutriente, oltre che tradizionale in molti territori in cui si concentrava la Resistenza. La farina di mais veniva conservata in grosse taniche: bastava un po’ di burro e acqua per addensare la polenta che poteva essere abbinata a carne e formaggi.
Dolce
Per i dolci ci si doveva adattare. Ma, quando possibile, non mancavano. A costo di sostituire il burro, sempre più introvabile con l’avanzare del conflitto, con soluzioni di fortuna: oli alternativi, di nocciole o di noci, come racconta lo scrittore Enzo Barbano, che nel suo Diario ha tramandato la ricetta della torta Lorena. Con circa 10 euro, un po’ di dimestichezza e un pizzico di fortuna nel trovare il lievito, si possono avere discreti risultati anche oggi.
Ricetta Torta Lorena (per 6-8) dal libro ‘’Partigiani a tavola’’
500 g di farina 00, 100 g di burro, 25 g di zucchero, 3 tuorli d’uovo, 10 cucchiai di latte, 1 bustina di lievito, la scorza di un limone non trattato.
Impastate bene la farina con il burro fresco che avrete fatto fondere prima, a bagnomaria. Incorporate lo zucchero, i tuorli e una bustina di lievito alsaziano. Unite il latte, mescolando con cura, e gli albumi sbattuti a neve ben ferma. Profumate con la scorza di un limone. Versate l’impasto in uno stampo a bordi bassi, imburrato e leggermente infarinato. Mettete in forno già caldo a 180-190° C per circa venticinque minuti.