Georgi GospodinovL’Europa non è una geografia, ma la malinconia dell’infanzia e di tutte le vite che non abbiamo avuto

Intervista allo scrittore bulgaro di “Tutti i nostri corpi”. Per lui il Continente «è stato come prima cosa una vecchia radio di legno con nomi di varie città scritti sulla scala: Londra, Parigi, Milano, Berlino»

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Ogni lunedì Europea vi porta alla scoperta dei più originali scrittori di successo in Europa, ma poco conosciuti in Italia.

«Ricordo chiaramente, a pelle, senza esserci mai stato, il sole fiammeggiante sugli infiniti campi di cotone della Louisiana. Ricordo sul mio palato il gusto della madeleine di Proust e le sue briciole che galleggiavano nel tè».

Il primo di questi 103 racconti, o “storie superbrevi” come recita il sottotitolo della nuova raccolta di Georgi Gospodinov “Tutti i nostri corpi” (Voland, traduzione di Giuseppe Dell’Agata), più che una porta d’accesso è un manifesto di poetica: «La lettura produce ricordi. Da tempo non ricordo e mi rifiuto di indagare su quali provengano dalla lettura e quali no. Non percepisco nessuna differenza, tutto è stato vissuto, tutto mi fa venire la pelle d’oca, tutto ha lasciato una cicatrice. In tutti i miei corpi…».

Tutti i corpi di questo poeta e scrittore nato nel 1968 a Jambol, regione della Bulgaria al confine con la Turchia, sono quelli degli io che ha abitato attraverso la lettura, la scrittura e lo scorrere delle vite che hanno portato alla sua: «La mia mano ricorda la mano di mio padre, che ricorda quella di mio nonno. Non sono io, è la mano che ricorda. Non sono io, è mio nonno che sbuccia la mela. E tutti e tre la ingoiamo contenti».

Dopo tutte le identità lette, vissute e scritte, tutti i corpi abitati, impossibili e desiderati, quali sono le identità di Georgi Gospodinov? «Narratore e padre di mia figlia, queste sono le prime due che mi vengono in mente. Ma soprattutto essere umano. Poi figlio dei miei genitori e nipote dei miei nonni».

Ci mettiamo anche il paese di provenienza? «Sto cercando di mantenere neutralità sul fatto di essere bulgaro: né troppo orgoglio, né vergogna. Essere uno scrittore bulgaro non è la cosa più semplice al mondo: è un paese di cui non si sa molto. Quello che non mi piace proprio sono qualifiche come scrittore dell’Europa orientale, balcanico. Il dolore non ha passaporto».

Lui stesso sembra non averne: in questo momento vive a Berlino, dove trascorrerà un anno al Wissenschaftskolleg, ma è vissuto un anno a New York, uno a Sofia e sei mesi nel monastero svizzero di Zug. «La patria è lì dove ci sono i nostri nemici», scrive in uno dei racconti più brevi della raccolta.

È quello che trova quando torna a casa? «Ogni nazione produce una certa quantità di odio», spiega. «E noi in questo siamo messi piuttosto bene in classifica. La patria è dove ci odiano nel modo migliore, più forte, più amorevole per così dire. Quando parlo o resto in silenzio nella mia lingua madre, o quando mi sento triste in un modo molto particolare, so di essere tornato a casa. Quando vedo il giardino di mio padre, sono a casa».

Tutto in Gospodinov finisce per assumere il metro della malinconia: per ciò che è accaduto o accadrà, ma anche per ciò che non succederà mai e non è mai successo. Passato e futuro reali e possibili si rincorrono, si riconoscono, inciampano l’uno nell’altro. La tăgà bulgara, al contrario della turca hüzün e della portoghese saudade, come spiega in un suo racconto, non è la malinconia di imperi che hanno avuto tutto e poi lo hanno perso, ma «riguarda qualcosa che hai perso, senza la certezza che tu l’abbia mai avuto».

«Ciò che non è accaduto è spesso molto più importante delle cose che sono successe. Questo è un tema che attraversa tutto i miei libri», spiega. «Il non-accaduto dura più a lungo. È difficile da narrare ma è esattamente ciò che mi interessa, di cui sono più ansioso di parlare».

La stessa Storia bulgara, che nei riferimenti che ne fa Gospodinov non ha conosciuto né un’Insurrezione contro il regime comunista di Zhivkov né un Sessantotto, sembra una collezione inerte di non accadimenti. Una cosa tuttavia l’autore era convinto fosse esclusivamente bulgara: la noia che afflisse il Paese negli anni Ottanta e che raccontò in un capitolo del suo “Fisica della malinconia”.

Ma anche su questo dovette ricredersi: «Quando il romanzo è uscito in Italia nel 2013, una recensione entusiastica spiegava come la noia bulgara degli anni Ottanta fornisse una buona descrizione anche di quella italiana: a quel punto smisi di pensare che fosse un tratto distintivo bulgaro. A giudicare dall’accoglienza dei miei libri in Italia, credo proviamo sentimenti simili per il mondo, per esempio la sensazione che la vita sia sempre altrove».

Cresciuto sotto il regime comunista, da piccolo Gospodinov e suo fratello pensavano che “l’Estero” fosse il nome di un Paese, al pari dell’Italia e della Francia, solo molto migliore («Abbiamo immaginato il mondo negato come più bello e allettante di quanto non fosse»). Nessuno in famiglia era mai stato in questo misterioso paese, ma qualcuno era stato in Europa, e ne parlava con piacere.

«Mio nonno fu soldato durante la Seconda guerra mondiale. Da bambino mi raccontava di quell’Europa, non delle battaglie e del fango, ma di come là la gente ascoltasse musica classica a casa sui grammofoni con il corno, come preparassero il tè in speciali tazze di porcellana e quanto educatamente parlassero tra di loro. Dato che non ci fu nessun’altra guerra, lui non fu più invitato a vedere l’Europa. Per me l’Europa è stata come prima cosa una vecchia radio di legno con nomi di varie città scritti sulla scala: Londra, Parigi, Milano, Berlino».

Solo più tardi è arrivata l’Europa dei libri, quelli letti e poi i propri tradotti, che hanno portato Gospodinov a viaggiare per il continente. «Ma quando viaggio, guardo ancora tutto attraverso gli occhi di diverse generazioni di miei parenti stretti che non sono mai riusciti a vedere le città d’Europa. La maggior parte di loro ora non c’è più, quindi guardo anche per loro. Per avere qualcosa da raccontargli un giorno».

Eppure, pur facendo spesso riferimento a viaggi ed esperienze europee, il narratore di “Tutti i nostri corpi” sente una familiarità d’elezione con altre due culture: quella turca, che attraverso gli immigrati gli permette di sentirsi a casa ovunque vada, e quella indiana, nelle cui focacce preparate in un ristorante etnico londinese riconosce il sapore di quelle cucinate dalla nonna trent’anni prima.

«Dopo tutti i miei viaggi, posso dire di sentirmi a casa in posti abbastanza inaspettati», confessa Gospodinov. «Non mi sono mai sentito così vicino alla mia infanzia bulgara come nei sei mesi che ho trascorso in un monastero svizzero, tra campane delle mucche e odori di ogni tipo d’erba.

C’è un’altra geografia – degli odori, del ronzio pomeridiano delle mosche, dei lenti crepuscoli – ed è più importante di quella classica. Almeno per me, questa geografia è l’unica che conta».

«Anche un giorno d’estate a Brooklyn ebbi la persistente sensazione che tutto ciò che mi circondava ripetesse i miei ricordi di quei giorni estivi nella Bulgaria degli anni ‘80. Forse era a causa dell’odore dell’asfalto che si scioglieva e delle strade leggermente sporche. Credo che esista qualcosa come una migrazione dei nostri dolori. A volte puoi vedere come scorre il tuo passato o come granelli di sabbia provenienti dai deserti nordafricani ti portino qualcosa di familiare. Per me, ciò che rende simili i diversi luoghi d’Europa non è la geografia ma il tempo, il senso del tempo e i comuni sentimenti di base come la tristezza, l’ansia o la calma, la nostalgia dell’infanzia».

Georgi Gospodinov da piccolo viveva con i nonni e dalle loro bocche ascoltò le prime storie: «Devo molto al modo in cui mia nonna e mio nonno raccontavano. Le loro storie erano un misto di magia e realtà: quello che poi ritrovai in Gabriel Garcia Márquez, senza che loro lo conoscessero. Sapevo che un drago stava visitando i nostri vicini perché era innamorato della donna di casa. In un altro quartiere invece c’era un uomo nato con delle ali sotto le braccia, e con gli altri bambini d’estate cercavamo furtivi di vederlo senza maglietta. Poi mi piace l’ironia bulgara e l’autoironia del narratore che si prende sempre in giro».

Quell’ironia che, assieme alle poche ma salde certezza su cui ha costruito la sua visione del mondo, trattiene la sua malinconia dal diventare pessimismo: «Dopo aver mostrato la durezza della realtà uno scrittore ha due possibilità. La prima è spingere la testa del lettore nel fango e dire che non c’è salvezza. L’altra, per trovare significato e consolazione anche nel fango, nel buio, è camminare insieme al lettore fino alla fine del mondo e parlare parlare lungo la strada.

Persino nella Piccola fiammiferaia di Andersen, la storia più triste della nostra infanzia, alla fine c’è un po’ di luce. Come scrivo nel racconto “Fino alla porta”: “Nel sonno e nella morte ognuno entra da solo, ma fino alla porta è bene che ti accompagni qualcuno”. Questo è ciò che la letteratura dopotutto fa, non ti lascia solo sulla strada».

«Forse alla fine crederò all’Europa solo grazie alla bellezza di Monica Vitti»

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