L. e S. sono seduti sul divano ed S. tiene in braccio Carlotta. Lui ha 41 anni e lei 38. Convivono in via Ludovico Ariosto. Dalla loro finestra si vede l’ingresso dell’autostrada.
Ci incontriamo il 25 aprile, nel pomeriggio. Io quel giorno ho mangiato gli arancini sul terrazzo di casa. Nello stesso palazzo dove vivo insieme a ML. vivono anche suo fratello e sua madre, mentre nel palazzo di fronte si è da poco trasferito un nostro amico. In queste settimane, per i giorni di festa, ci siamo sempre trovati tutti insieme a mangiare. In cinque persone.
Un pranzo normale, che da qualche settimana è diventato un assembramento. Non mi sento tanto bene. Come al solito, quando è festa, ho esagerato mangiando nove arancini e il fatto di averli conditi, inondati, di ketchup, ha sollevato alcuni rimproveri a tavola.
La madre di ML. non avrebbe voluto neanche portare i piatti e le posate a tavola, “perché per mangiare gli arancini servono solo un tovagliolo e le mani”.
Quando ha visto che portavo ketchup e salsa barbecue ha detto che se fossimo stati in Sicilia, insieme alla sua famiglia, mi avrebbe cacciato da casa.
M. nel frattempo è uscito per comprare le sigarette e ha scoperto che la macchina non funziona. Non si mette più in moto. Mentre io inizio a parlare con L. e S., lui è in mezzo la strada, a Bologna, durante questa quarantena, il 25 aprile, a capire come fare per risolvere il problema dell’automobile.
Io ed L. iniziamo a parlare della piattaforma sulla quale ci stiamo incontrando. Io ho iniziato a usarla per registrare le spiegazioni e incontrarmi con gli studenti durante le ore di lezione, lui mi dice che la conosceva da qualche anno ma che ora non la usa da un po’.
Nel frattempo S. guarda Carlotta, avvolta in una piccola coperta e oscilla le braccia, lentamente. Carlotta ha appena mangiato e sta iniziando il suo pisolino pomeridiano. Loro oggi hanno mangiato noodles alle verdure.
S. lavora come insegnante, L. invece scrive fumetti e con la sua associazione culturale organizza un festival dedicato al mondo del fumetto e diversi corsi di grafica, disegno e narrazione.
S. – Quando resti chiuso in casa per tanti giorni inizi a scoprire cose che prima non conoscevi. Ad esempio, oggi mentre eravamo affacciati alla finestra, abbiamo visto un nostro vicino di casa con due serpenti. Era lì, sul suo balcone, a petto nudo, con in mano due serpenti e si faceva fare delle foto da un’altra persona. Prima con uno e poi con l’altro.
L. – Quando abbiamo visto le immagini delle strade deserte a Wuhan, siamo rimasti molto colpiti da quella situazione.
S. – Io, ancor prima dei decreti d’inizio marzo ho iniziato a non uscire. Non so perché. Probabilmente per un istinto di protezione nei confronti della bambina che stava per arrivare. La gravidanza è stata difficile e ho iniziato ad avere paura. Ricordo anche di una discussione con L. una sera che saremmo dovuti andare a cena fuori con amici. Lui alla fine è andato, io sono rimasta a casa. Abbiamo litigato quella sera. Gli dicevo “ma così tu non mi appoggi. Mi fai passare per la pazza di turno che non vuole uscire, quando invece sei tu che non ti rendi conto che è pericoloso. Dove vai? Resta a casa!”. Ricordo anche una delle prime volte che mi sono rifiutata di salutare un’amica. Eravamo fuori, lei si è avvicinata per darmi un bacio, per abbracciarmi, e io l’ho fermata. In un certo senso la mia è una quarantena lunghissima.
L. – Io ho completamente sottovalutato tutta questa situazione fino all’ultimo momento, tant’è che il 27 febbraio, quando ormai i contagi si erano già diffusi in Lombardia, sono partito per andare a Roma per lavoro.
È stata un’esperienza surreale. Nella mia testa mi sembrava di vivere in una serie tv, sentivo un panico diffuso con il quale però non riuscivo a sintonizzarmi. Mi sentivo uno spettatore di tutta questa situazione. Come se quello che stava già accadendo non mi riguardasse.
A Roma le strade erano completamente vuote, non c’erano turisti. Ricordo i rimproveri di mia madre: “ma dove vai? Non andare! S. è incinta” e ricordo anche le mie risposte “ma no, guarda che alla fine si tratta solo di un raffreddore. Stanno solo esagerando”.
Dopo le cose sono cambiate. Ho avuto contezza di tutto il 3 marzo, quando hanno chiuso la casa di cura dove era ricoverato mio padre. Si trovava da qualche mese in una RSA, era ricoverato lì perché dopo il 2015 ha iniziato ad avere molti problemi di salute. È stato operato al cuore, non riusciva a camminare, aveva quasi perso l’udito e la vista.
Quel giorno ho avuto un blocco al cuore perché non potevo più avere contatti con lui. Sapevo che stava male e che con la diffusione del virus la sua era una situazione molto a rischio.
Dopo il 3 marzo ho iniziato ad andare in auto davanti la casa di cura per salutarlo dalla finestra. Non potendo parlare con lui, non sapevo neanche se avesse compreso la gravità della situazione. In alcuni momenti perdeva la lucidità e aveva difficoltà a comprendere quello che gli accadeva intorno.
In quei giorni ci eravamo messi d’accordo con gli infermieri della struttura che a una certa ora io e mio fratello avemmo chiamato per fare delle video-chiamate. Ma non è la stessa cosa, lui aveva problemi di vista e di udito, non era facile comunicare così.
Nel frattempo era arrivato il decreto del 9 marzo e praticamente da quel momento abbiamo iniziato ad aspettare il parto. Con il lavoro tutto era già fermo. Qui da noi i corsi della scuola di fumetto sono stati interrotti per essere poi ripresi on-line, tutti i festival del fumetto in Italia stanno saltando, il Comicon è saltato, il Romix anche, e forse anche il Lucca Comix salterà.
In questi giorni sentiamo parlare molto delle aziende, delle attività commerciali che dovranno ripartire, ma nel settore della cultura tutto è ancora molto vago. Ancora è tutto sconosciuto. Non sappiamo quando potremo di nuovo fare un evento.
Ma sono pensieri che inizio a farmi adesso, nei primi giorni di marzo un po’ non riuscivo a prevedere e un po’ noi pensavamo al parto.
S. – …il parto. Ho partorito il 18 marzo ma sono entrata in ospedale il 13. Quando ho sentito il medico per concordare questa visita, era molto, molto, preoccupato. In quei giorni, mi spiegava, si erano create delle chat con alcuni suoi colleghi del nord grazie alle quali lui seguiva l’andamento della situazione. Il timore di doverla affrontare anche qui si faceva sentire. Proprio per questo mi disse che forse era meglio partorire qualche giorno prima, così da anticipare l’aumento dei casi, che comunque ormai sembrava essere una cosa certa.
La visita in ospedale è stata terribile, ero molto tesa e l’impatto passando dal pronto soccorso, di sera, è stato brutto. Vedere tutti con i guanti e le mascherine, la tenda del triage allestita fuori dall’ospedale per l’arrivo dei primi casi covid-19 e, vicino la tenda, molti medici e infermieri completamente coperti dalle tute bianche, dalla testa ai piedi. In quel momento io e L. ci siamo salutati, lui non è potuto entrare in ospedale.
All’ingresso del pronto soccorso hanno preso le valigie che avevamo portato con noi e un infermiere mi ha accompagnato fino al reparto di Ostetricia-Ginecologia.
Quando siamo usciti da casa non ci eravamo preparati a questa cosa, non avevamo minimamente programmato che avrei dovuto portare tutto quello che mi serviva per stare in ospedale per una settimana, in una situazione del genere. Mentre attraversavo i corridoi, completamente deserti dell’ospedale, si sentiva una forte tensione.
Seduta sulla carrozzina ho provato a chiedere all’infermiere come andassero le cose. Non avevo intenzione di parlare della situazione nello specifico, era un’esigenza, la mia, di rompere quel silenzio. “Come va?”, lui continuava a spingermi e quasi come se si trovasse da un’altra parte, come se stesse tornando da un’altra conversazione che stava avvenendo chissà dove nella sua testa, mi ha risposto seccamente “malissimo”.
L. – Nei giorni successivi abbiamo trovato un modo per poterci vedere, da lontano. S. mi ha descritto quello che vedeva dalla sua finestra, io ho capito dove potermi posizionare, fuori dall’ospedale. Vedevamo un puntino l’uno dell’altro. Stavamo lì fermi. Io sulla strada e lei alla finestra. E parlavamo al telefono.
S. – In ospedale si stava chiusi. Non potevamo uscire dalle stanze e dovevamo tenere la mascherina tutto il giorno. Anche la notte, sempre. Giorno e notte. Dormire con la mascherina è stata una cosa che ho dovuto proprio imparare. Il rigore era fondamentale.
Il travaglio fatto con la mascherina non lo consiglio a nessuno. In quei giorni in ospedale non sapevo cosa pensare, pensavo a mia madre, al fatto che sarebbe dovuta essere lì. Mi dispiaceva per lei. Ricordo che quando ho iniziato il travaglio, tra il 16 e il 17 marzo ci sono state delle scosse di terremoto. Alcune si sono sentite anche in città e sono state molto forti. In quei momenti pensavo spesso al corso pre-parto.
Mi ritornavano in mente tutte le parole dette per focalizzare l’attenzione sull’importanza della condivisione di quel momento con il proprio compagno. “il tuo compagno ti terrà la mano, ti farà i massaggi…ti faranno questo, ti faranno quello…”.
Non sapevo se ridere o piangere. Non potevo condividere niente con nessuno.
Né la gioia, né il dolore. E anche il rapporto con i medici, con le ostetriche, aveva qualcosa di fastidioso. Non poterli vedere in faccia, non poter neanche percepire quel gioco delle espressioni del viso che possono mandare un messaggio di tranquillità attraverso un sorriso, un movimento delle guance.
L. – L’attesa, a casa, è stata triste. Non doveva essere triste. Attaccato al telefono, a vedere la serie tv “Il cacciatore” e a leggere l’ultimo speciale di Tex disegnato da Claudio Villa. Sai, la tua immaginazione, in questo caso, è predisposta verso un’altra direzione. Immagini una cosa classica, non so come dire, tradizionale, normale. Aspetti fuori, fumando sigarette, preoccupato, vai al bar con qualche amico a prendere un caffè. Invece io mi trovavo a casa, non potevo entrare in ospedale. Uscivo solo per portare i vestiti di ricambio a S. e per farci quella chiacchierata al telefono sotto la sua finestra.
Anche questa cosa dei cambi è stata difficile, perché non c’era una qualche normativa, una procedura di riferimento, ma S. doveva avere giornalmente un cambio di vestiti puliti. Alla fine tutti ci trovavamo a un’ora precisa fuori dall’ospedale a prendere i vestiti sporchi e a lasciare quelli puliti.
Io ho visto Carlotta per la prima volta dopo due giorni dalla nascita, quando hanno dimesso S. dall’ospedale. Anche in quel momento tutto è stato frettoloso. L’istinto, l’esigenza era di fermarmi un attimo, fare le cose piano, prendere le valige, aiutare S., guardare Carlotta. Invece tutto è stato fatto in fretta e furia, perché non potevamo stare lì all’ingresso dell’ospedale. C’erano i guanti, le mascherine, la preoccupazione.
S. – In ospedale ricordavo i momenti in cui con L. ci immaginavamo questa scena. Immaginavamo di arrivare in ospedale insieme, in macchina. Di trovare traffico. E invece ero lì sola e, data la situazione, anche il personale sanitario non aveva modo di starci vicino.
Ricordo che durante il travaglio, di sera, in un momento di tranquillità tra un dolore e l’altro, con questa mascherina premuta sulla faccia che m’impediva anche solo di urlare come si deve, ho mandato una foto alla mia famiglia e a L. dicendo loro di andare a dormire perché ci sarebbe voluto ancora molto e che ci saremmo sentiti il giorno dopo.
Sapevo che il parto stava per iniziare, ma non volevo farli rimanere in pensiero, attaccati al telefono.
Un’ora dopo ho partorito. Appena ho potuto, ho mandato una foto di Carlotta a L. e a mia madre. Così, secca. Senza scrivere nulla. L. ha risposto “Chi è?” e mia madre ha risposto con dei punti interrogativi. Ho conservato gli screenshot di quest’assurda conversazione. I due giorni successivi, prima di essere dimessa, ero molto stanca. È normale. Essere lì con tua figlia e avere sempre i guanti e la mascherina, mi infastidiva perché il semplice contatto era completamente diverso da quello che volevo e avevo immaginato.
L. – Arrivati a casa è iniziato il dopo. In primo luogo il problema della registrazione della nascita al Comune. Anche in questo caso, ci siamo trovati davanti a tutte le variabili e i problemi specifici della burocrazia, una cosa che riguarda la vita di un sacco di persone, non è successo solo a noi. Ma credo che tutta questa casistica sia stata risolta con un mix di previsione e improvvisazione.
Da un lato il Comune aveva informato l’ospedale che i genitori avrebbero potuto fare tutti i documenti all’Ufficio Anagrafe presente nell’ospedale stesso, dall’altro in ospedale tutta l’attenzione era rivolta ai pazienti e S. una volta dimessa, con Carlotta in braccio, non era più una priorità.
Io e S. non siamo sposati ma conviviamo e per i conviventi le regole per la registrazione sono diverse. Mentre se si è sposati, può recarsi in Comune anche solo uno dei genitori, nel caso della convivenza bisogna andare insieme.
E per noi uscire insieme, con la bambina appena nata, senza poter contare sull’aiuto di nessuno, dato che nessuno poteva venire a trovarci, è stata un’avventura. Io sono andato per giorni al Comune per provare a sbrigare la situazione da solo. Alla fine non c’è stato verso. Siamo dovuti andare tutti e tre, ma ci siamo andati dopo un mese.
Sono quaranta giorni che le nonne fremono perché non l’hanno mai vista. Mia madre vive in un’altra città, la madre di S. anche. Uno spostamento per questo motivo non era giustificato e, in più, tutti vivono con la preoccupazione di poter fare del male alla bambina.
S. – Quando immaginavamo le prime settimane, il primo mese, ci vedevamo già circondati dagli amici e dai parenti. Nella nostra testa il momento del rientro a casa non era soltanto una festa condivisa con le persone, ma anche una questione pragmatica, come un accompagnamento, una transizione durante la quale parlando con i parenti, con i genitori, saremmo diventati genitori a nostra volta. E poi, io avevo bisogno di riposare e L. non è mai stato proprio il massimo nelle faccende di casa.
Invece ora si è dovuto inventare casalingo e, insieme, ci siamo immediatamente adattati a fare i genitori. L. i primi giorni aveva paura di sbagliare tutto, sudava, si muoveva per casa, quando prendeva Carlotta in braccio era rigido. La bambina sente solo le nostre voci, non sente rumori, fuori c’è sempre silenzio. A volte penso che dopo per lei sarà complicato abituarsi a tutt’altro.
L. -…esatto. Quando vedi questo esserino minuscolo, hai paura di fargli male. La mattina mi sveglio e preparo la colazione. Poi mi lavo, pulisco il bagno, finisco di sistemare e mi dedico al pranzo.
Faccio le lavatrici, rimetto tutto a posto, disinfetto tutte le cose della bambina e poi se c’è bisogno vado a fare la spesa. Esco da casa con due mascherine, gli occhiali, i guanti, le scarpe le metto fuori dalla porta e le lascio sempre fuori, dentro una busta. Appena torno, metto i vestiti a lavare, mi cambio e disinfetto tutta la spesa. Anche il telefonino e le chiavi della macchina. Tutte le scatole le disinfetto con una soluzione di acqua e alcol. Quando finisco tutto indosso il pigiama.
S. – Prima non stava mai in casa in pigiama. Ma era fondamentale che lui imparasse ad aiutarmi, così io, che avevo bisogno di stare a letto, potevo dedicarmi a lei, ad allattarla. C’è stato un momento in cui mia madre e mia sorella si erano decise a mettersi in macchina per venire a trovarci. Ma le ho fermate.
Ho dovuto quasi litigare con mia sorella che era già pronta a partire per venire a vedere la nipote. Doverle dire “tu a casa mia non entri. Tu mia figlia non la tocchi” è stato brutto, così come non poter dare la gioia a tutta la famiglia, non poterla condividere, non poter ricevere l’aiuto ma anche non poter dare la possibilità a nessuno di sentirsi utile. L’affetto è arrivato, è stato fortissimo. Virtuale, via chat, con telefonate, video. Mi hanno contattato persone che non sentivo da anni, amici dell’Erasmus.
La vicinanza di tutti si è fatta sentire, però, di certo, la prima cosa che voglio fare dopo è stare con le nostre famiglie, condividere con loro la gioia della nascita.
In queste settimane sono uscita tre volte: una per andare dalla pediatra e, casualmente, abbiamo incontrato, quasi sotto casa, due nostri amici, è stato bellissimo incontrarli, io da dentro la macchina li salutavo e gli facevo vedere la bambina. È stato il primo momento di condivisione. Una seconda volta, per andare a comprare i pannolini e, infine, qualche giorno fa quando hanno riaperto i negozi per bambini, per comprare a Carlotta un vestitino.
Avevo rimandato completamente l’acquisto dei vestiti e di tutto quello che ci sarebbe servito. Un po’ per scaramanzia, un po’ perché non sapevamo il peso, ma anche perché poi con la nascita tante cose le ricevi in regalo, tante altre le portano i parenti. E invece mi sono trovata a dover vestire la bambina con quei pochi vestiti che alcuni amici ci avevano regalato prima. Ma erano enormi.
Avevamo pensato “tanto poi, figurati, ci riempiranno di regali”. Anche se è durata una settimana, le ho comprato una tutina della sua taglia, per vederla con un vestito giusto, della sua misura. E poi, qualche giorno fa ho voluto festeggiare il suo primo mese, ho allestito il tavolo e la stanza con alcune decorazioni che avevo comprato e abbiamo festeggiato in video-chiamata con gli amici.
L. – Mio padre l’ha vista solo in foto. E le cose sono diventate ancora più difficili a partire dal 18 marzo, quando la città dove era ricoverato è stata dichiarata “zona rossa” ed è stata chiusa. La bambina era nata da un giorno e io il 19 Marzo, la festa del papà, ho deciso di mettermi in macchina per andarlo a trovare.
Sono passato da casa di mio fratello per stampare una foto di Carlotta in formato A4 in modo tale che lui potesse vederla. Ho preso l’autostrada e sono arrivato fin lì. Non ho incontrato nessun posto di blocco, ma in quel momento non ci pensavo. Mi sarei anche preso la multa, pazienza. Gli infermieri, qualche giorno dopo, mi hanno detto che lui teneva la foto sul comodino. Con il senno di poi, posso anche dire che avevo questa sensazione, non so, avevo pensato che non ero sicuro che lui l’avrebbe mai potuta vedere. Dopo qualche giorno ha iniziato ad avere dei problemi di respirazione.
È stato per una vita un grande fumatore e con il tempo ha iniziato a soffrire di una broncopolmonite ostruttiva. Sono stati costretti a farlo respirare con un macchinario e quindi anche le telefonate sono diventate impossibili. Poi hanno deciso di trasferirlo al pronto soccorso e io sono andato lì, naturalmente, ma non sono potuto entrare.
Quel momento è stato devastante, perché c’era un via vai di ambulanze che si fermavano davanti la tenda del triage. E anche mio padre è stato sistemato lì. Il protocollo dell’ospedale ormai era questo: se stai male, con problemi di respirazione, in primo luogo vieni visitato insieme a tutti gli altri pazienti rispetto ai quali c’è un sospetto di contagio e ti viene fatto il tampone.
Lui è risultato negativo. Però veniva da una zona rossa. Potevo parlare solo con la guardia all’ingresso, mio fratello era lì con me, mentre mia madre non è riuscita a venire. Per tutto il pomeriggio siamo stati lì, poi lui è stato trasferito in rianimazione e ci hanno dato un numero al quale chiamare per avere informazioni. Anche in rianimazione non saremmo comunque potuti entrare.
Per i successivi 10 giorni alle 15 potevamo chiamare per avere informazioni. Sono stati dei giorni difficili da gestire, perché da un lato devi portare una certa tranquillità dentro casa, per la bambina e per S., dall’altro questa tranquillità te la devi inventare, perché non ce l’hai e aspetti quell’unico momento per fare quella chiamata e avere qualche notizia. Sapevamo che le speranze erano poche. A fine marzo è morto.
Nella situazione in cui ci trovavamo, il lutto, l’organizzazione del funerale, erano cose difficili. In questi giorni ci ripensavo, perché a volte ti trovi a parlare di quel momento: il via vai di amici, di persone che non vedevi da anni, gente che non sopporti, che ti riempiono di strette di mano, di caffè, portano i cornetti a casa, ecc.
Io ricordo il giorno dopo che mio padre è morto, ricordo di esser stato tutto il giorno in giro a sbrigare le pratiche per il funerale, la notte non avevo dormito. E non sai che voglia avevo di fermarmi un attimo per un caffè, fermarmi per un banale ristoro, due chiacchiere, un conoscente che ti abbraccia e ti chiede “come stai?”.
E anche nei giorni successivi non poter uscire con un amico, fare una passeggiata, provare a distrarsi è stato difficile. Il funerale praticamente non c’è stato. Io, mia madre e mio fratello siamo andati al cimitero per dieci minuti, il tempo della tumulazione e basta.
Alla fine la cosa più brutta di questo periodo è che si sono tagliati tutti i rapporti. Perché la vita quotidiana scorre, con gli amici puoi continuare a sentirti, anche se hai da sbrigare delle cose di lavoro puoi farlo, ma ci sono dei momenti in cui la vicinanza, il contatto è fondamentale.
Quando capita una nascita, o una morte, se non hai nessun contatto, alcune cose le perdi. So che non sarebbe cambiato nulla, ma non sono potuto stare nel pronto soccorso con mio padre, non potevo stare lì, non so se lui in quelle sere ha chiesto di me, se aveva bisogno di una bottiglia d’acqua e nessuno gliel’ha potuta portare. Cambiarlo, vestirlo, semplicemente essere lì, in quel momento intimo.
L. si ferma un attimo…poi arriva S. insieme a Carlotta. Sono entrambi lì, sul balcone. L. guarda Carlotta e riprende a parlare:
– In questi giorni per farla addormentare le canto “Malafemmena”, mentre S. le canta sempre “Aguas de março”. Il momento più bello di questo periodo assurdo l’abbiamo provato la prima sera. Quando S. è tornata a casa e abbiamo sistemato Carlotta nella culla. Abbiamo chiuso la stanza e ci siamo trovati insieme. Tutto quello che stava succedendo fuori è passato in secondo piano. Carlotta aveva preso la nostra attenzione ed esistevamo solo noi. Noi proteggevamo lei e lei, dormendo in quella culla, proteggeva noi da tutti i nostri pensieri, dalle nostre preoccupazioni.
da “Lockdown. Vite in quarantena”, a cura di Mirko Perri e Armando Canzonieri, Associazione “Che cosa sono le nuvole APS”
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