Giancarlo Morelli è uno che di ristorazione se ne intende: ha passato la sua vita a collezionare ristoranti, successi, credibilità e apprezzamento. Per la sua cucina, ma anche e soprattutto per il suo modo concreto, efficiente, pratico e umile di vivere questa professione.
Un cuoco patron come non ce ne sono quasi più, concentrato sul benessere dell’ospite, sul lavoro di squadra della brigata e sulla sua eterna voglia di far bene.
Sempre ben inserito nell’ambiente dei colleghi, ma sempre con una visione personale, identitaria, e attenta. Ha costruito tante occasioni di confronto e in incontro per il settore, ed è a buon diritto considerato uno dei numi tutelari della grande cucina milanese.
Prima con il suo Pomireu, poi con il Bulk, e con tante iniziative diverse in Sardegna e in Alto Adige ha coccolato e fatto divertire diverse generazioni di appassionati di cucina e di buon vivere, con i suoi modi diretti e senza sovrastrutture, ma eleganti e accoglienti.
Per questo, il suo gravissimo incidente sugli sci il 9 gennaio ha colpito tutti e ha fatto temere per la sua vita. Il messaggio su Instagram che ha reso noto al pubblico della sua momentanea uscita dal parco giochi della ristorazione ha raccolto centinaia di commenti e di messaggi, sottolineando come l’affetto per lui sia sincero e autentico.
Oggi, giornata di riapertura del suo Bulk, l’abbiamo raggiunto al telefono per capire come questi due accidenti della vita, il suo personale e quello che ha colpito tutti noi e il mondo intero, siano in realtà simili e complementari. E come abbiano cambiato definitivamente il suo modo di vedere la vita e il suo lavoro. Abbiamo ritrovato la stessa persona combattiva e determinata, forse solo un po’ più riflessiva, ma con le idee ben chiare e la voglia di fare di un adolescente.
Partendo innanzitutto dalla sua salute: «Adesso mi sto finalmente riprendendo, sono solo un po’ rallentato. Però sono contento per come procedono le cose: sono tranquillo. Certo, adesso i miei valori della vita sono altri. Sono uscito da cliniche e ospedali da poco, in realtà: dal 9 gennaio ho passato 4 mesi rinchiuso».
Per lo chef, questa è stata una lezione di vita nella lezione di vita che ha colpito il mondo, e che ha fatto riflettere tutti su quale sarà il nostro futuro: «Al momento sto cercando di far riprendere i ristoranti esattamente come mi sto riprendendo io. I miei ristoranti rappresentano quello che sono io adesso: sono zoppi, rallentati nel collo e nelle braccia. Oggi riapriamo il Bulk, solo dall’aperitivo in avanti, mentre per il ristorante Morelli aspettiamo a a settembre, perché voglio capire come si evolve questa situazione. A Seregno abbiamo aperto sabato scorso: ho scelto il sabato per non cadere in depressione e non aprire con i tavoli vuoti. E devo dire che è andata bene: è arrivata un po’ di gente che ci conosce, poi un po’ di gente che vuole uscire nel fine settimana. Dai colleghi aperti da più tempo avevo intuito che è la settimana che fa fatica a decollare. Il vero banco di prova sono questi giorni in settimana.»
Ma nonostante la doppia sventura, di lasciarsi andare alla depressione non ci pensa proprio: «Forse anch’io inconsciamente non sono ancora pronto per ‘andare a cena fuori’, ma bisogna stare su. Penso che bisogna ricominciare. Io ho dovuto ricominciare a camminare, a muovere il collo e le braccia, ho dovuto imparare di nuovo a lavarmi i denti e a rifare tutto quello che è la normalità. E così i ristoratori devono muoversi come il primo giorno che abbiamo aperto, quando eravamo giovani e si cominciavano a muovere i primi passi. Oggi la cosa più importante è cercare di stare aperti: bisogna essere umili e cercare di leggere al meglio possibile qual è il futuro, e parlo del futuro del giorno dopo, non del lungo periodo. Perché penso che oggi bisogna viaggiare dove va il vento: mettere la barca a favore di vento per fare qualche passo in più. Non penso che ci sia qualcuno che può prevedere il futuro: se non succede più niente di tragico, una ripresa ci sarà, ma sarà lenta. Il mondo deve fare il suo percorso».
Qualche sassolino dalla scarpa si può togliere, nella sua situazione, svelando un pensiero che in molti fanno ma in pochi dicono: «Purtroppo penso che il mondo della ristorazione era sopravvalutato. Sembrava si potesse fare tutto. L’imperativo era: apriamo qualcosa che abbia a che fare con il food. E questo è lo scotto che abbiamo pagato tutti. Le esigenze di ristoranti per una città come Milano – in fermento e piena di turisti – erano già sovradimensionate: avevamo il 35/38% in più di ristoranti e bar che non servivano già prima, figuriamoci adesso, senza soldi e senza turisti! I milanesi che possono spendere senza pensare saranno il 5%. La gente normale ha vissuto la cassa integrazione. Io ho iniziato a fare l’imprenditore nel 1985: e mai avrei pensato di avere i miei ragazzi in cassa integrazione. Questo mi fa pensare molto».
E oltre a questo incidente, è arrivato anche il coronavirus, a scombinare i piani del nostro chef: «Ho vissuto talmente al limite il mio incidente che il virus l’ho vissuto in tv, ma mi sembravano tutte delle cose molto più grandi di quello che erano. Non capivo bene che cosa stesse succedendo. Quando sono tornato a Milano, a metà maggio, mi sembrava di essere arrivato in una città che non conoscevo: non ho mai visto Milano così. Non c’era in giro nessuno, il traffico non c’era. E mi hanno poi detto che in realtà quando l’ho vista io era già tornata parzialmente a vivere! Eppure a me è sembrato di rientrare in una città da the day after».
Perché dall’interno di una clinica era tutto ovattato: «Io alla fine sono vivo per un millimetro, e non per dire. Il valore della vita cambia. Ho vissuto in clinica questa tragedia globale e mi sono accorto da piccoli dettagli che stava succedendo qualcosa di grosso: hanno smontato un piano, si percepiva che stava arrivando anche in quella zona (lo chef era in Trentino, ndr). Solo adesso che sono qui capisco che il Covid-19 ha creato un grande terrore nella gente. Là lo capivi da piccoli segnali: ad un certo punto mi hanno dato la mascherina e mi portavano da mangiare nei piatti usa e getta. Ma io ero in lotta per capire se potevo camminare ancora, se potevo muovere il collo, se vedevo ancora dritto, se potevo muovere le braccia. L’ho vissuto in un modo completamente diverso. Essendo bergamasco, poi, ho vissuto una strage: abbiamo tutti un parente, un amico in famiglia che non ce l’ha fatta. Ho sentito che il 58% dei bergamaschi hanno avuto almeno un contatto con il virus: è una follia».
Ma è solo con il contatto con i milanesi che ha avuto la percezione esatta della gravità del momento: «Quello che mi ha fatto capire la realtà è stato sentire il dramma e la sofferenza dei miei ragazzi, incerti per il futuro. E allora non ho potuto che rassicurarli: ce la facciamo tutti assieme, gli dicevo, e li spronavo a stare tranquilli. Io ce l’ho fatta, e vi garantisco che ripartiremo tutti insieme. Non possiamo pensare di fare tutto subito, ma dobbiamo essere propositivi».
E oggi, adesso, alla riapertura? «Sono felice perché siamo vivi. Dobbiamo pensare a un futuro che arriverà, ma ripartire come se avessimo appena intrapreso questa strada. Come fossimo tutti appena aperti, per la prima volta. Nel 1985, avendo da pagare i miei primi dipendenti, dovevo fare i conti come il salumiere per arrivare a fine mese, e poi ho pensato a crescere un po’ alla volta. Di una cosa sono sicuro: se pensiamo che tutto sarà come prima, che appena ripriamo sarà tutto come quando abbiamo lasciato, temo che ci faremo del male. Chi è un po’ di tempo sul mercato, chi ha vissuto il 2008, il 2012, la caduta delle torri gemelle ha raccolto un po’ di esperienze. Chi ha lavorato di suo, con la sua pelle e la sua schiena, tutti questi ristoratori che sono persone serie, si riprenderanno tutti. Sono un po’ meno convinto della sorte di quelli dell’ultima ora, quelli dei soldi facili che poi per forza bisogna trasformare in ristoranti. Questo settore è stato bistrattato da tutti: sembrava di essere al Casinò, ad un certo punto, nella ristorazione milanese: bastava puntare una fiche e ne prendevi dieci. Non era già così prima, adesso non lo sarà più. Si viveva tutti su della panna montata, senza renderci conto chi valeva e chi invece era lì perché c’era qualcuno che metteva dei soldi. Questo ci ha fatto combattere per anni ad armi non pari. Perché se c’è qualcuno che apre senza aver l’esigenza di far quadrare dei conti, per quelli seri è sempre più difficile».
Sul cambiamento sostanziale della cucina, quella nel piatto, è convinto: «La cucina credo diventerà sempre più autentica, perché diventerà come la vita: l’importane è stare al mondo, essere vivi e si apprezzerà sempre di più la cucina legata alla ricerca del prodotto, della materia prima e del rispetto della tradizione, che oggi è diventata contemporanea. La cucina che hanno inventato i nostri grandi maestri sarà una cucina che premierà sempre: una cucina vera, non un fake, una cucina legata all’anima, al cuore, al prodotto, alla materia. Andrà sempre di più, in realtà stava già andando in quella direzione: una linea più vera, dove io posso effettivamente da consumatore dare subito un valore al cuoco perché ho un metro di paragone sulla qualità. Insomma: il cuoco deve diventare un po’ più virologo e un po’ meno politico: la politica ci ha messo in confusione e gli uomini di scienza ci hanno dato un po’ di rassicurazione. Perché una cosa è chiara: noi siamo stati abbandonati dalla classe politica».
La ripartenza è il prossimo traguardo, e lo chef fa un appello ai suoi colleghi: «Per noi che avevamo già prima tutte le distanze richieste e anche di più, e tanto verde fuori, alla fine non cambia molto. Quello che chiedo ai colleghi è di far capire ai nostri ospiti di cambiare un po’ le loro abitudini e imparare a gestire i doppi turni. Avere meno persone ammassate alle 20.30 consente di salvaguardare la salute di clienti e dipendenti e in più ci permette di riuscire a farli sentire coccolati e protetti, con i giusti spazi. Ho notato che le persone hanno cominciato a uscire piuttosto presto: è giusto, è un modo per prendersi più tempo per sé. Alla fine non c’è bisogno di venire tutti insieme! Dobbiamo saper spiegare loro, tutti insieme, che è meglio per tutti avere più flessibilità sugli orari».
Il momento, comunque, è solenne, e sa di primo giorno di scuola: «Stasera voglio che sia il momento più bello della mia vita. Poi siamo sempre in tempo a tornare indietro. Ho superato questo dramma senza cadere nel buio totale perché sono tornato indietro o qualcuno mi ha dato una spinta. E adesso è così che vivo il mondo del mio lavoro: devo salvaguardare più posti di lavoro, devo permettere a tutti i miei dipendenti di pagare il mutuo e le rate dell’auto. Vorrei tutto come prima, è logico, ma non si può: adesso abbiamo bisogno di fare squadra noi che siamo i datori di lavoro e i ragazzi che sono i nostri motori. Devo fare i conti anche con il mio corpo: tutti i giorni faccio fisioterapia, acquisisco mezzo millimetro di passo in più, muovo meglio il collo. Ma è chiaro che è durissima. È dura come far ripartire questi posti, ma bisogna lavorarci sopra: con il lavoro ci arriveremo e con l’aiuto delle autorità – se finalmente vogliono darci una mano – ce la faremo».
In bocca al lupo, dunque, a lui, al team e a tutti i ristoratori che stanno piano piano tornando a far vivere le nostre città. Se li amiamo, andiamo a trovarli, magari al primo turno. Per fare notte ci sarà tempo.