Il coronavirus potrebbe decretare definitivamente la fine dei modelli di business esistenti nell’editoria. Non è una novità: l’industria delle notizie è in declino da 30 anni, ma, con la crisi provocata dalla pandemia, i giornali di tutto il mondo, online e cartacei, potrebbe fare grande difficoltà a sopravvivere. Secondo un articolo del Financial Times, negli Stati Uniti almeno 38.000 dipendenti del settore della stampa, dai giornalisti al personale commerciale, sono stati licenziati o hanno subito tagli agli stipendi a partire da marzo.
«Il sostegno statale in Europa ha attenuato il colpo, ma le scelte dolorose potrebbero essere state solo ritardate» si legge nell’articolo. «Il gruppo di ricerca Enders Analysis stima che la crisi delle entrate mette a rischio un terzo dei lavori giornalistici nel Regno Unito, sia gli impiegati in start-up sostenute da capitali di rischio come Vice, sia chi lavora in giornali e riviste locali centenari».
Anche l’Italia non se la passa meglio: nel mese di aprile il tracollo delle vendite in edicola si è fatto sentire. Nonostante la crescita annua registrata nel digital: con un +17% fatto segnare dalle 219mila copie digitali complessive.
La complementarità tra virtuale e cartaceo riesce solo in parte a tamponare l’emorragia del settore. E spesso quel che crea è un divario maggiore tra i vari editori. I giornali statunitensi, per esempio, hanno perso quasi la metà del personale della redazione dal 2008, secondo il Pew Research Center. Tuttavia, spiega il giornale britannico, nel primo trimestre del 2020 «il New York Times ha aggiunto 587mila abbonamenti digitali – più di tutti i 100 giornali di proprietà di Gannett, il più grande editore statunitense, e più dei lettori online a pagamento del Los Angeles Times e del Boston Globe messi insieme».
Sorte peggiore per il Minneapolis Star Tribune. I suoi giornalisti, al centro delle proteste per l’uccisione di George Floyd, sono stati minacciati, intossicati con gas lacrimogeni e colpiti con proiettili di gomma. E in più sono stati anche costretti a tagliare le loro ore per risparmiare sui costi del giornale, che ha perso il 40% delle sue entrate pubblicitarie dall’inizio della crisi.
«Abbiamo investito più degli altri, abbiamo più persone di tutti gli altri e stiamo andando un po’ meglio di tutti gli altri», afferma Mark Thompson, amministratore delegato del New York Times, al Financial Times. «La nostra tesi – continua Thompson – è che devi investire in un prodotto per avere una chance nel business dei media digitali». Detto questo, martedì scorso il New York Times ha tagliato 68 posti di lavoro, in gran parte nella pubblicità, risparmiando la redazione.
Perché alcune redazioni resistono e altre sono sull’orlo del collasso? Il calo delle entrate pubblicitarie dovuto allo shock economico provocato dal Covid è stato devastante. Secondo i dati di GroupM, la più grande azienda di media pubblicitari al mondo, giornali e riviste in due decenni hanno visto scendere a meno del 10% la loro quota di un mercato che vale circa 530 miliardi di dollari.
I principali rivali sono le piattaforme come Google e Facebook, che raccolgono la maggior parte della pubblicità locale e specializzata. Il coronavirus sta smantellando quel poco che è rimasto. «Alcuni giornali – aggiunge il Financial Times – riportano che la pubblicità è scesa tra il 50 e il 90% ad aprile» e come entrata netta hanno potuto contare solo sugli abbonamenti dei lettori.
Ma la vera domanda è una: fino a che punto potrà durare il modello degli abbonamenti? E potrà mai sostituire le entrate derivanti dalla pubblicità? «Le entrate degli abbonamenti sono più sostenibili, sono ricorrenti, hanno molti vantaggi», spiega al Financial Times Kristin Skogen Lund, amministratore delegato di Schibsted, il più grande editore in Scandinavia. «Il problema è che la base delle entrate non è abbastanza grande. Dovresti pagare così tanto per un abbonamento da sostenere l’intero costo di gestione di un sito multimediale».
In più, l’identikit del consumatore medio vede un pubblico pagante per le notizie online, in America e in Europa, composto dai più vecchi, spesso benestanti e bianchi. Il pericolo che si corre, continua l’articolo, è perciò una divisione delle notizie «tra un pubblico pagante d’élite, che è ben servito ma piccolo, e un pubblico più ampio che si affida agli editori che stanno cercando di monetizzare il traffico web, ma possono avere difficoltà a riportare notizie locali in profondità».
Rasmus Kleis Nielsen del Reuters Institute aggiunge che la maggior parte delle pubblicazioni basate su abbonamenti si concentrerà principalmente su un’area di nicchia: «Cosa comporterà? Molti giornalisti perderanno il lavoro, molte comunità perderanno la loro fonte locale di notizie e molte storie non saranno raccontate perché non ci sarà nessuno a “coprirle”» chiosa Nielsen.
Un nuovo modello di sostentamento per i giornali, prosegue il quotidiano, sono i grandi sostenitori: miliardari, piattaforme tecnologiche e governi. Ma nessuna è un’opzione semplice. «La tendenza ha attirato più attenzione da quando il fondatore di Amazon Jeff Bezos – la persona più ricca del mondo – nel 2013 ha acquistato il Washington Post per 250 milioni di dollari. Ma anche quando l’indipendenza della produzione di notizie è protetta, recenti esempi hanno rivelato le carenze di tale piano aziendale» svela il Financial Times.
Alcune grandi giornali puntano sull’aiuto di Facebook e Google, in particolarmente gli editori digitali come Huffington Post e BuzzFeed, aziende in difficoltà che un tempo venivano annunciate come il futuro del giornalismo. Molti dirigenti dei media, però, avvertono che fare affidamento su Big Tech comporta pericoli, soprattutto se gli editori vogliono sviluppare nuovi prodotti per gli abbonati. «Il problema delle piattaforme è che molto spesso si è quasi esclusi dai propri dati», afferma Skogen Lund al Financial Times. «E questo è quasi come essere tagliato fuori dai tuoi soldi».