Le vie della modaGigliola Curiel, il sogno di una sartoria alla fine della guerra

Gli Alleati sbarcano in Italia, i nazisti compiono gli ultimi rastrellamenti. Ma come racconta Gaetano Castellini Curiel in “Gigliola Curiel” (Le Lettere) è in quei giorni che nasce l’idea: un atelier che avrebbe cambiato il panorama dello stile milanese, e non solo

L’arrivo dei tedeschi aveva messo Gigliola e Lucia in tremenda agitazione. Era stata la prima volta, da quando erano partite da Roma, che avevano incontrato un gruppo di militari del Reich: non c’erano stati posti di blocco né controlli a sorpresa, così quella porta battuta dai colpi dei soldati e quell’accento duro aveva cancellato i giorni di tranquillità in cui erano scivolate serenamente.

Se parte della retrovia tedesca si stava radunando in Umbria in vista della ripresa degli scontri a gennaio, per loro era tempo di rimettersi in viaggio.

Sergio sosteneva di riparare a Civitavecchia, sul mare a nord di Roma, dove a suo dire sarebbero sbarcate altre truppe alleate non appena il tempo lo avesse permesso; secondo Nino sarebbe stato meglio rimanere in Umbria, in un territorio che conosceva, pieno di possibili alleati per la fuga; secondo Gigliola invece, insistendo in una strategia che a Roma aveva dato i suoi frutti, la cosa migliore era avvicinarsi alla linea del fronte.

Lì i militari erano occupati negli scontri con l’esercito e, con i movimenti partigiani ancora dormienti, badavano poco a chi si muoveva tra le città.

Poi visto come era andato questo conflitto, che da guerra lampo si era trasformata in guerra di posizione, Gigliola preferiva avvicinarsi il più possibile a quelle città che sarebbero state liberate per prime.

Nei ricordi di quel periodo, gli spostamenti si confondono, si susseguono decine di taxi, lunghi viaggi su strade sterrate per evitare i posti di blocco, stanze di alberghi e casolari, ville sul mare e incontri clandestini.

Uno dei motivi per cui Gigliola scelse di andare a sud, infatti, fu una nuova comunicazione arrivata dal fratello tramite Ida. Avrebbe incontrato un uomo fuori Roma, a sud e lui gli avrebbe dato alcuni pacchetti da consegnare al di sotto della linea Gustav.

In quei mesi mentre abbozzava dei disegni sul suo taccuino, immaginando con quali vestiti avrebbe abbigliato le figure del cinema americano che aveva visto sulle riviste, aveva preso una decisione: se c’era qualcosa che avrebbe potuto fare per facilitare la fine degli scontri, non si sarebbe tirata indietro intimorita.

Aveva deciso che tra lei e il suo sogno di aprire una sartoria di mezzo c’era solo la guerra. Così si era messa in contatto con Eugenio e due giorni dopo aveva ricevuto indicazioni per un appuntamento a Sabaudia, qualche chilometro a sud di Roma.

Era arrivata lì con Nino, lui si era offerto di accompagnarla anche se non era del tutto convinto di volerla aiutare: lasciarla andare sola, tuttavia, era fuori discussione.

Parcheggiarono la macchina all’ombra di uno dei mausolei razionalisti di Sabaudia e si incamminarono sul lungomare, in lontananza, appena visibili, le rocce frastagliate si spezzavano a formare un profilo femminile.

«Quella è la maga Circe» disse Nino indicando il promontorio. «Vedi la bocca, quella è la fronte» con la mano accarezzava il profilo costruito dalle rocce: «Non è bellissima?»

«Come?». Gigliola, nervosa e tormentata dall’idea di sua figlia lontana, era affogata nei suoi pensieri e non aveva ascoltato una sola parola di Nino.

Lui sorrise e la prese sotto braccio. Il sole stava calando dietro la montagna e gli ultimi raggi che si riflettevano sul marmo bianco della città rimbalzavano splendenti. Gigliola si infilò gli occhiali da sole.

«Signora sa dirmi l’ora per favore?». Una donna con un fazzoletto annodato sotto il collo e degli stinchi massicci che spuntavano dalla gonna, si guardava intorno con aria sospetta, mentre aspettava che Gigliola scoprisse il polso con l’orologio.

«È l’ora» rispose.

La donna annuì e riprese a camminare nel senso opposto. I gabbiani volteggiavano rumorosi sopra il porticciolo spezzando l’aria con il loro gracchiare. Nino si sistemò il bavero della giacca.

Più avanti un ragazzo poco più che dodicenne sedeva su uno sgabello di legno con un secchio di plastica blu tra le gambe.

«Signora lo vuole assaggiare un cannolicchio, sono una prelibatezza, sa» disse e veloce infilò una mano nel secchio, prese un mollusco e con un piccolo coltellino lo aprì a metà. «Del limone lo gradisce?».

«Io veramente…».

«Lo mangio io» disse Nino allungando la mano verso la conchiglia stretta e lunga. «Niente limone, grazie». Succhiò via il mollusco piegando la testa indietro.

«È buono, vero?» Nino fece sì con la testa e mandò giù tutto. «Allora ecco il vostro mazzetto» disse lasciando un pacchetto rivestito di carta ingiallita nelle mani di Gigliola «vi aspettano per cena a Latina» aggiunse, poi afferrò il secchio e lo sgabello e fischiettando se ne andò lungo la banchina.

«Hanno iniziato a bombardare Berlino questa notte. L’Armata Rossa è alle porte di Berlino. Togliatti dice che è questione di giorni».

«E gli alleati?» chiese un uomo con l’accento ungherese.

«Presto libereranno Roma, il bombardamento di Montecassino ha fatto arretrare i tedeschi, ora fuggono da tutte le parti».

Quando batterono due colpi sulla porta di ferro che chiudeva la cantina il più magro dei due scattò in piedi. «Chi è?».

«Sono il professore» rispose la voce al di là della porta. Il magrolino si rigirò la sigaretta tra le dita e fece scorrere il palo di ferro che chiudeva la porticina.

L’uomo che si era presentato come il professore, un tizio alto e grande con l’aspetto più del contadino che del professore entrò abbassando la testa.

La lampada a olio tremò mentre un refolo d’aria entrava dalla porta seguito da Gigliola e Nino che nei loro vestiti eleganti, apparivano come due stranieri.

«Chi sono questi?» «Lei è la sorella del compagno Giorgio» disse il professore. «Del Curiel?» disse il più magro dei due e come una luce sembrò accendersi sul suo viso. «Venga signora si accomodi». disse passandole una sedia.

«Suo fratello e io siamo stati insieme a Ventotene, mi chiamo Alberto», disse allungando la mano a Gigliola. Un po’ insicura, ricambiò la stretta.

«Come sta?» chiese.

«Dicono che a Milano le cose sono ancora dure» rispose il più magro.

«Ma non ci vorrà molto, i compagni si riprenderanno la città» ribatté l’ungherese.

Il professore lanciò un’occhiata a Gigliola che tirò fuori il pacchetto da sotto il cappotto.

Il più magro lo prese mentre l’ungherese rimase in silenzio, aprì la carta ingiallita e tirò fuori una scatola di latta, come quella per le pastiglie alla menta. All’interno c’erano dei piccoli uncini di ferro con i chiodi alle estremità.

«Con questi sulle strade intorno a Roma possiamo rallentare i convogli dei militari quando sarà il momento di prendere la città» disse il professore alzando uno dei chiodi alla luce delle lanterne.

Due colpi sordi risuonarono nella cantina. Gigliola e Nino trasalirono. Gli uomini si lanciarono un’occhiata poi l’ungherese si alzò e andò alla porta.

«Chi è?» «Sono io, sono Blitz, aprite sbrigatevi». Il più piccolo si girò a guardare il professore che con un cenno della testa fece segno di aprire la porta.

Il ragazzino dei cannolicchi entrò come una furia, aveva il fiatone e parlava in modo concitato con le parole che si sovrapponevano l’una all’altra, in un borbottio incomprensibile.

«Fermati Pietro, respira. Si può sapere che cazzo è successo?».

«So’ sbarcati, professore» disse il ragazzino. «Gli americani, so’ sbarcati ad Anzio».

 

da “Gigliola Curiel. Una vita nella moda”, di Gaetano Castellini Curiel, Le Lettere, 2020

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