Emanuele Felice, responsabile economico del Partito democratico, da settimane conduce su Twitter una battaglia piuttosto singolare. Sostiene, prendendo spunto da alcune posizioni pubbliche di Matteo Salvini, che la Lega sia un movimento di «destra liberista», e che più in generale il sovranismo non sia altro che una declinazione di questa area di pensiero.
Nella sua tesi Felice non è solo, anzi, l’analisi va molto di moda a sinistra. Come tutte le semplificazioni di moda è tuttavia fallace, e soprattutto, in questo caso, in malafede.
Anche perché l’architrave della politica economica della Lega è il seguente: spesa corrente, possibilmente da finanziare emettendo moneta. Il Partito repubblicano americano, tradizionalmente accostato al liberismo e a un’ideologia fiscale conservatrice, ha un’impostazione economica molto distante da quella leghista.
Non per nulla Donald Trump, che ha contribuito a far esplodere il deficit del governo federale degli Stati Uniti per trovare risorse per il suo programma economico, è detestato dai repubblicani tradizionali (ormai pochi e ininfluenti), che lo considerano un corpo estraneo.
Margaret Thatcher, altra icona liberista, tuonava contro lo sperpero di denaro pubblico, spiegando che «esistono soltanto i soldi dei contribuenti»; una posizione difficilmente compatibile con l’idea di prendere soldi in prestito sui mercati per finanziare un provvedimento come Quota 100.
Non è molto liberista o conservatore sul piano economico salvare Alitalia con miliardi di «soldi dei contribuenti» pur di avere una compagnia di bandiera (argomento sul quale il Partito democratico e Matteo Salvini hanno un’opinione molto simile, tra l’altro).
Al di là della semplificazione propagandistica che assimila il liberismo al leghismo, con l’evidente obiettivo di attaccare e automaticamente squalificare chi ha invece delle posizioni lontane da quelle difese (legittimamente) dal Partito democratico, senza per questo essere affine a Matteo Salvini, l’artificio retorico di Emanuele Felice segnala il grande problema culturale italiano.
Un problema che non nasce certo con il responsabile economico dei dem: destra e liberismo sono da sempre considerate brutte parole, quasi insulti, volti a demonizzare gli avversari politici, accusati di essere dalla parte sbagliata.
Non è un caso che un uomo importante nella storia della sinistra italiana degli ultimi anni, Pierluigi Bersani, sia solito avvertire contro l’ascesa delle «destre», un plurale dispregiativo utilizzato per mettere insieme le diverse culture politiche di destra, condannate a rappresentare indistintamente le forze del male.
Un atteggiamento non così lontano da quello di Silvio Berlusconi, che ha condotto una fantomatica battaglia contro «i comunisti» per venticinque anni, assimilando tutta la sinistra agli eredi di Lenin e Stalin.
L’Italia, d’altro canto, non ha mai avuto un partito o un movimento di opinione conservatore assimilabile alle grandi famiglie europee. Probabilmente perché, come ripete spesso Ernesto Galli della Loggia, il Paese non ha mai avuto granché da conservare: è nato dopo l’annessione o l’unificazione di staterelli preesistenti che andavano cancellati per giustificare l’esistenza della nuova entità; ha vissuto la parentesi fascista, sovversiva dell’ordine costituito per sua stessa natura, al punto da riportare a zero il conto degli anni, come tutte le rivoluzioni; è cresciuto con la Repubblica nata dalla Resistenza, una pagina completamente nuova che ha fondato la propria legittimazione sul rifiuto del passato, monarchico e fascista; ha attraversato infine il passaggio da prima a seconda Repubblica, anch’esso traumatico e volto alla damnatio memoriae del sistema immediatamente precedente.
È vero che la società italiana è conservatrice, non ama le novità né le riforme, trova sempre scuse per rifiutare i cambiamenti – non sempre, esistono notevoli eccezioni come il referendum sul divorzio e sull’aborto -, ma il suo conservatorismo, scrive Egdl, è «senza ambizioni, senza progetto, senz’alcun orizzonte istituzionale vero, sul quale è impossibile costruire nulla o è possibile costruire tutto: persino il sovversivismo fascista o le fortune di un governo che si vuole di sinistra».
È anche vero che chi ha occupato la destra politica negli ultimi trent’anni, da Silvio Berlusconi a Matteo Salvini, si è molto impegnato nel coltivare una classe dirigente impresentabile. E ha senz’altro aiutato il luogo comune per cui la destra sia appunto questo: populista, impresentabile e volgare.
Eppure, cosa avevano di liberista i governi Berlusconi? Hanno messo in campo politiche per aumentare la crescita, la produttività, diminuire l’improduttiva spesa pubblica? Il berlusconismo è stato forse sobrio e austero, di destra, come il gollismo francese o come i cristianodemocratici tedeschi?
La verità è che la destra, nell’Italia repubblicana, non è mai esistita. E attaccare chi non esiste è semplicissimo: non corri il rischio che qualcuno ti risponda.