Una delle poche certezze lasciate dall’epidemia da coronavirus è che qualcosa, nella sanità pubblica italiana, dovrà cambiare. Servirà ragionare sui modi, sui tempi e sui termini. Anche sulla portata stessa del cambiamento.
«In questi casi, quando finisce un’emergenza, occorre sempre trovarsi a un tavolo e discutere su cosa ha funzionato e cosa no», spiega il professor Pier Luigi Lopalco, professore di Igiene generale e applicata dell’Università di Pisa e consulente per la Regione Puglia durante l’emergenza.
Una premessa: a suo avviso, nonostante i ritardi, l’impreparazione e le difficoltà mostrate, «il sistema ha retto. Esclusa la Lombardia (su cui si tornerà), i numeri danno un quadro spesso migliore rispetto ad altre realtà».
Merito, «senza dubbio, della sua natura universalistica. Cure per tutti, garantite e sempre presenti sono un principio cardine cui non si può rinunciare». Lui lo inserirebbe nella categoria delle cose da tenere, quelle cioè che hanno funzionato.
A creare problemi, invece, è stata «una scarsa cultura del controllo delle infezioni negli ospedali. Si è visto con chiarezza che il personale non era pronto e non era stato formato. Del resto era il nostro tallone d’Achille, nessuno ne è rimasto sorpreso. Il settore è stato da tempo abbandonato a livello culturale, senza investimenti adeguati».
Il risultato? Quando c’era l’esperto (se c’era) ci si è affidati a lui, con disposizioni sanitarie in ogni situazione diverse, in un’ottica di improvvisazione e dando un’idea di disorganizzazione che non ci si può permettere.
Per il futuro «serve pensare a qualcosa di più strutturato, che funzioni a livello capillare. Questo a mio avviso è il nodo centrale per la sanità pubblica italiana dei prossimi anni».
È il punto di inizio di un ripensamento generale, una sorta di rivoluzione del funzionamento della sanità. Che parta dal concetto di prevenzione. «Un’area per la quale, al momento, viene allocato solo il 5% delle risorse del Fondo Sanitario Nazionale. Troppo poco».
Anche perché va a coprire le spese per le vaccinazioni, per la nutrizione, ma anche la lotta al diabete e all’obesità. In questo campo andrà introdotto anche un piano specifico per la preparazione a epidemie. Vasto programma, si direbbe.
Meglio cambiare impostazione, andando in un verso opposto rispetto a quello attuale: «Gli ospedali devono essere l’ultima spiaggia, l’ultimo livello della cura. Prima viene la prevenzione, a più gradi. In generale, si comincia con la promozione di stili di vita sani, poi con diversi livelli di assistenza, da quella domiciliare del territorio passando per presidi locali».
Questo modello permetterebbe anche di «risparmiare risorse, liberando investimenti per altre strutture e altre politiche sanitarie».
Se prima della pandemia si discuteva, da parte di alcune forze politiche, di depotenziare (se non proprio eliminare) la figura del medico di famiglia, questo nuovo modello al contrario lo rivaluterebbe.
«È centrale, fa parte del sistema di prevenzione e cura territoriale. Si dovrebbe anzi discutere se sia da inquadrare come dipendente dell’azienda sanitaria o se lavori come libero professionista».
Non solo. La sanità privata dovrà, più o meno come fa ora, «andare al traino del sistema pubblico». Costituisce un allargamento delle risorse a disposizione, permettendo un’offerta più vasta. Ed è un bene. «Ma di sicuro non si occuperà di prevenzione, ma di terapie. Quello non è un settore da cui si può fare business». Prevarrà, come ora, il carattere pubblico.
Ma sarà regionale o centralizzata? «Su questo ci sono diverse posizioni. Da un lato, è vero che un sistema centralizzato permetterebbe una risposta più rapida e uniforme», anche a livello di comunicazione, oltre che di numeri e conteggi. Senza dubbio un vantaggio.
«Tuttavia, con l’attuale sistema regionalizzato si è potuto agire a livello locale in modo veloce, senza eccessivi passaggi burocratici, e senza dubbio più mirato. Smontare e rimontare gli ospedali per creare nuovi reparti Covid, come è avvenuto durante la pandemia, avrebbe richiesto molto più tempo con una linea di comando centrale». Un sistema che sappia unire le due cose sarebbe, senza dubbio, la scelta migliore.
Di fronte alla pandemia ha faticato anche il modello lombardo, che non ha brillato. Era un mito infondato? «No. La Lombardia rimane l’eccellenza per il sistema ospedaliero. L’equivoco è stato identificare quest’ultimo con il sistema sanitario. Sono due cose diverse».
Il secondo ha come obiettivo, per dirlo in modo chiaro, quello di non fare entrare le persone in ospedale, cioè di mantenerle sane il più possibile. «Invece in Italia, se guardiamo ai macrodati, assistiamo a un paradosso: si allunga la vita media delle persone, ma non si allunga la vita media in buona salute».
Tradotto: ci sono tanti anziani malati, che richiedono grandi spese per curare patologie croniche. «Ci si accanisce sulla terapia, ma non si investe invece sulle politiche per prevenirle, in sostanza». Si regalano anni di vita senza assicurare che siano ben goduti.
Un sistema sanitario efficiente dovrebbe occuparsi anche di questo, anche solo per la possibilità di risparmio che ne deriverebbe. Sembra semplice. Ma per capirlo è stata necessario affrontare, con tutte le difficoltà del caso, una pandemia.
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