Non ha mai convinto dall’inizio. Quibi, la piattaforma di contenuti video brevissimi (puntate al massimo di 10 minuti) pensati solo per smartphone, si sta rivelando un mezzo fallimento.
I dati sono impietosi: a maggio 2020, il totale degli utenti sarebbe di 1,5 milioni, a fronte di una previsione per fine anno di 7,4. Nella migliore delle ipotesi, scrive il Wall Street Journal, può arrivare a 2 milioni, ma molti di quelli che si sono iscritti finora hanno approfittato del periodo di prova gratis (e c’è da credere che a fine giugno, quando scadrà, abbandoneranno la piattaforma). Il tutto per oltre un miliardo di dollari di spesa.
Pessime notizie, visto che nel giro di poco la società è rimasta senza soldi e grandi sponsor come Pepsi, Taco Bell e WalMart hanno già chiesto di rinegoziare i loro impegni.
Cosa non ha funzionato? Più o meno tutto. Per Jeffrey Katzenberg (DreamWorks), che ha fondato la piattaforma insieme a Meg Whitman, ex ceo di Hewlett Packard, la colpa è della pandemia. Quibi (da “Quick bit”, cioè “morso veloce”) era pensato per riempire i tempi morti dei pendolari. Piccoli video, brevi, a puntate e ad effetto da vedere tra una fermata e l’altra.
In linea di massima la sua diagnosi è corretta: per un prodotto simile, è difficile immaginare una situazione meno favorevole della quarantena.
Ma questo non deve far dimenticare tutti gli altri gravi limiti del servizio. Per esempio, la scelta di rendere visibili i contenuti solo su smartphone e non da laptop. Perché? Oppure il fatto che non si possa fare screenshot, eliminando così il lato “meme”, fondamentale per rendere popolari i contenuti.
Non si salva nemmeno la tecnologia “Turnstyle”, quella sì interessante, che permette di vedere lo stesso contenuto senza soluzione di continuità sia in verticale che in orizzontale: al momento, è al centro di una disputa legale che ha tutta l’aria di non finire bene.
Il vero problema, però, è la qualità dei contenuti. Proporre una riedizione di “Forum” con una malposta modella Chrissy Teigen nel ruolo di giudice sembrava un’idea folle, e lo era. Il documentario sulla scuola fondata da LeBron James, “I promise”, era a metà tra la pubblicità e la pubblicità.
“Dummy”, la storia di una ragazza che gira il mondo insieme alla bambola gonfiabile del suo ex fidanzato ha un lato surreale promettente sulla carta ma povero di contenuti nella realtà.
E poi c’è sempre “Dishmantled”, il programma in cui i concorrenti devono ricostruire in cucina i piatti che vengono loro sparati addosso. Così assurdo che diventa perfino simpatico. Nell’insieme, l’impressione è che si sia puntato più sui nomi di celebrità (addirittura si parlava anche di Steven Spielberg) che sull’originalità delle idee. E questo si è visto.
Vista la mala parata, spiega sempre il Wall Street Journal, in poco tempo è cominciata anche la fuga dei dirigenti. Se ne sono andati il responsabile per l’advertising e quello per i contenuti. Ad aprile anche Megan Imbre, che si occupava del brand marketing. E voci parlano di litigi e discussioni continue tra i due fondatori e di malcontento tra i dipendenti.
È comprensibile. Il progetto, almeno nelle sue aspirazioni iniziali, è fallito. Volevano ridefinire l’unità base dell’entertainment americano – avrebbe dovuto diventare il pezzo breve da 10 minuti – e non ci sono riusciti. Ora l’idea è di permettere all’utente di segmentare a piacere il contenuto, in pause più lunghe o meno lunghe, a seconda della sua volontà.
Volevano esaltare – di conseguenza – lo smartphone come strumento principale per la fruizione, e adesso sono in trattative per passare su Amazon Fire e Roku per andare in televisione.
Volevano diventare – come si dice qui– l’alternativa di Netflix. E sono finiti per essere un altro Netflix, con molti più problemi e meno idee.
Forse la loro colpa è non aver badato ai gusti (conservatori, tutto sommato) dei consumatori, inondandoli con contenuti eccessivi, per stile e per tecnologia.
A suo modo, anche la parabola di Quibi, la piattaforma rivoluzionaria già in via di normalizzazione dopo tre mesi, è l’ennesima lezione che il pubblico è sovrano. Spesso purtroppo. Stavolta, per fortuna.