Bisogna avere molta comprensione per il ministro Roberto Speranza. Ha dovuto affrontare una emergenza storica e imprevedibile. E pare che ne abbia sofferto perfino sul piano psicologico e fisico. Di fronte a una tale tragedia, chiunque avrebbe commesso degli errori. Tuttavia, dobbiamo anche ricordare che nessuna altra istituzione come il ministero della Sanità – e le agenzie collegate – fosse nelle condizioni più favorevoli, fin dall’inizio, per avere informazioni corrette e tempestive sulla pandemia.
Per esempio, aveva molte informazioni sulle modalità adottate dai paesi asiatici – non solo la Cina, ma anche Corea del Sud, Singapore, Taiwan e Hong Kong – nel fronteggiare l’emergenza sanitaria.
Trascorsi ormai quattro mesi e mezzo dall’emergenza dei primi casi in Italia e in Europa, inoltre, potremmo finalmente aspettarci qualcosa di più da chi, per via delle sue funzioni di governo, ha fatto esperienza diretta della crisi. Viceversa, nella relazione al Parlamento di qualche giorno fa, c’è poco o nulla di rilevante. Davvero stupisce che la stampa non abbia stigmatizzato questo evidente vuoto di governo.
Quali sono le carenze del rendiconto politico del ministro? Le elenco qui in modo schematico.
1- Nessun chiarimento sui dati raccolti
Per mesi abbiamo ascoltato conferenze stampa della Protezione civile costruite sulla base di numeri imprecisi e improbabili. A partire da questi numeri sono state adottate politiche fortemente restrittive dei diritti costituzionali dei cittadini e una risposta sanitaria senz’altro inadeguata.
I morti da Covid-19 sono probabilmente molti di più rispetto a quanti sono stati documentati dai dati ufficiali. Ma la macchina di raccolta dei dati (sbagliati, ma sui quali centinaia di sedicenti analisti si esercitano con grafici, modelli matematici e libere interpretazioni) sembra guidata ancora oggi da improvvisatori.
2- Nessun accenno di valutazione sulle misure adottate
Nessun accenno di valutazione sulle misure adottate. Prima di tutto, sul fronte squisitamente sanitario, caratterizzato da una gestione e da una comunicazione spesso confuse e contraddittorie. Basti pensare alle informazioni sull’uso delle mascherine: prima ‘”no”, sono inutili; poi “forse”, potrebbero servire; poi “si”, sono questione di vita o di morte; poi “se”, a seconda della situazione.
Per non parlare, poi, della gestione del lockdown, ispirata a una normativa allarmista e depressiva e realizzata con azioni irragionevoli e inutilmente vessatorie: i droni a caccia di runner solitari, gli squad a caccia di bagnanti isolati, il divieto di attività fisica, il confinamento dei bambini, ecc… Proprio il ministro – com’è noto – è stato un ardente sostenitore dell’adozione illimitata dell’autocertificazione scritta: una delle misure più stupide e insulse che potevano essere concepite.
Nell’intervista al Corriere della Sera, Speranza ammette che non rifarebbe molte cose. Siamo lieti di apprenderlo, ma non sappiamo che cosa non rifarebbe di preciso. Strano che la giornalista non l’abbia incalzato per chiederglielo, ma, soprattutto, strano che Speranza non ne abbia parlato in aula.
3- Perplessità sul lavoro dell’Organizzazione mondiale della sanità
Manca poi una valutazione onesta del lavoro dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. L’Italia fa parte delle organizzazioni internazionali e, nonostante un difetto di autostima, fa parte anche del ristretto novero delle potenze economiche mondiali e delle democrazie liberali.
Non c’è bisogno di arrivare all’isteria distruttiva di Donald Trump per formulare delle osservazioni sugli errori compiuti dall’Oms. Basterebbe almeno segnalare che una serie di messaggi contraddittori da parte di quella organizzazione può aver indotto le nostre istituzioni nazionali a prendere della cantonate. Come è effettivamente accaduto. Sarebbe un approccio più serio e trasparente per una più completa valutazione della vicenda.
4- Gli scienziati come sciamani
Un altro tema sul quale sarebbe stato interessante ascoltare il ministro è il traballante rapporto tra la “politica” e la “scienza”. Che – spersonalizzando un po’ – altro non è che il tema dell’uso delle evidenze scientifiche da parte dei decisori istituzionali nell’attuazione delle politiche pubbliche.
Fin dall’inizio dell’epidemia, il ministro Speranza si è distinto per un approccio “ancillare” della politica nei confronti della scienza, con un ritornello che suonava pressappoco così: «noi non decidiamo nulla; è il Comitato tecnico scientifico che ci dice cosa fare».
In questo approccio vi era chiaramente il tentativo (apprezzabile) di distinguersi dalla vulgata antiscientifica tipica del populismo pentastellato. Ma, a furia di distinguersi dall’irrazionalismo superstizioso dei grillini, il governo è caduto nell’errore esattamente contrario: l’uso “sciamanico” della scienza da parte del potere politico. Basti pensare alle dichiarazioni del ministro Boccia («la scienza ci dica cosa fare»), le più sciocche tra quelle ascoltate nel corso della pandemia. Con la conseguenza di trasformare gli scienziati – spesso in contraddizione tra loro, com’è peraltro normale che sia – in oracoli.
5- Quale rapporto tra Stato e Regioni?
Colpisce, poi, il silenzio totale di Speranza circa il rapporto con le Regioni. Che però rappresenta il cuore del management e del funzionamento del sistema sanitario nazionale oltre che il terreno sul quale si gioca l’attuazione effettiva degli articoli 3 e 32 della Costituzione.
Per ovvi motivi, non si può chiedere (forse) al ministro di commentare la conclamata inadeguatezza e la resistente impunità dell’esecutivo regionale lombardo o lo stile da duce del cabaret con il quale alcune regioni del Sud hanno affrontato la crisi. Ma un ragionamento sul funzionamento del Titolo V e sulla applicazione dei livelli essenziali di assistenza su tutto il territorio nazionale sarebbe quantomeno da iscrivere in agenda.
6- L’equilibrio tra ospedale e territorio nel Sistema sanitario nazionale
Un altro tema del tutto assente nella relazione del Ministro è quella relativa al ruolo cruciale svolto nella reazione al Covid-19 dal rapporto tra ospedale e territorio. Sappiamo, infatti, che i principali focolai di infezione sono stati negli ospedali e nelle Rsa.
Che l’errore principale commesso in Lombardia – e non solo – è stato quello di scaricare sugli ospedali la gestione del contagio. In questo modo, non soltanto gli ospedali sono stati progressivamente travolti dalle richieste di assistenza, ma sono diventati essi stessi dei detonatori del contagio.
Viceversa, le realtà (principalmente il Veneto, ma anche l’Emilia Romagna e la Toscana) che, dopo lo shock iniziale, hanno attivato una risposta a livello territoriale, puntando le strutture di prossimità e proteggendo gli ospedali, sono state quelle che meglio hanno saputo fronteggiare l’emergenza e riconquistare progressivamente una normalità di azione e di gestione.
Affrontare con serietà questo tema aiuterebbe inoltre a fare pulizia di argomenti del tutto ideologici e artificiosi come la contrapposizione tra ospedali pubblici e ospedali privati e come il lamento sui tagli alla sanità. Non è importante infatti, nella gestione della crisi pandemica, la proprietà – privata o pubblica – della struttura sanitaria, ma l’organizzazione dei servizi sul territorio. Così come la questione dell’impiego delle risorse andrebbe ricalibrata sulle esigenze effettive e attuali dei sistemi sanitari.
7- I malati no-covid che fine hanno fatto?
Dal ministro della Salute ci aspetteremmo poi un quadro complessivo della salute degli italiani dopo i mesi del lockdown. L’emergenza da coronavirus ha inevitabilmente avuto delle ripercussioni formidabili sul funzionamento del servizio sanitario nazionale.
La precedenza attribuita ai contagi da Covid-19 ha fatto passare in secondo piano tutte le altre patologie. Il lockdown ha moltiplicato le criticità di numerosi pazienti cronici e ha fatto esplodere nuovi disagi di tipo psichico e sociale.
Il confinamento a casa ha molto spesso lasciato fuori dai radar numerosi infetti che sono rimasti privi di assistenza. Molti pazienti hanno rinunciato alle cure per paura di avvicinarsi agli ospedali rischiando il contagio, aggravando ulteriormente il loro stato di salute.
Molti sono morti per malattie non curate – basti pensare agli infartuati – e molti hanno conosciuto un peggioramento che, nel tempo, aumenterà il numero di decessi e lo stress delle strutture sanitarie. Su questo enorme sommerso non c’è traccia nella comunicazione del ministero.
Cosa particolarmente grave se si pensa alla retorica sviluppata da parte del governo e da parte della gran parte della stampa (e, perfino, di certi costituzionalisti) sulla “vita prima di tutto” o sulla “salute come interesse prioritario”.
Una retorica che appare del tutto spropositata e ipocrita. Sia sul piano teorico: non esistono diritti “tiranni” capaci di cancellare tutti gli altri diritti e libertà. Sia se si guarda alla realtà concreta dei fatti: la tutela di un diritto è affare complesso che si iscrive sempre in un sistema di compatibilità interne, dipende da una serie di variabili e fa sempre i conti con la scarsità di risorse.
8- Testare, tracciare, trattare: chi se ne occupa?
Delle ormai celebri 3T (test, track, treat) si discute ormai da mesi. Primi a implementarle sono stati, tra tutti, i paesi asiatici: Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan. Grazie agli strumenti di diagnosi e monitoraggio adottati, questi paesi non hanno avuto bisogno di ricorrere al rigidissimo lockdown adottato in Italia come mossa disperata di fronte allo tsunami sanitario.
È chiaro che, come abbiamo sottolineato all’inizio, bisogna riconoscere alle istituzioni competenti il fatto di essere state prese in contropiede dagli eventi. Ora però sono passati quattro mesi e mezzo dall’inizio dell’epidemia. Abbiamo maggiori informazioni e conoscenze.
Abbiamo visto che, dopo settimane di silenzi, anche l’Oms ha riconosciuto che il Covid-19 si combatte aumentando la disponibilità dei test. Abbiamo imparato dal Veneto (e, in parte, dall’Emilia Romagna e dalla Toscana) che la diagnosi precoce (da realizzare con i tamponi) unita al tracciamento dei contagi (prima di tutto fisico, ma per il quale torna utile anche la app) è un modo intelligente per prevenire e comprimere l’epidemia.
Abbiamo anche visto che la Germania – forse il paese europeo che ha risposto meglio alla crisi sanitaria – ha adottato con successo questa strategia. Nonostante ciò il ministro Speranza nella sua relazione si limita a un generico «bisogna che…».
Nessun numero, nessuna strategia, nessun piano, nessun indizio di un coordinamento con le regioni sul punto. Solo la minaccia di chiudere di nuovo laddove si riaffacciassero dei focolai.
9- Che ne facciamo del Mes?
Costruire un corretto equilibrio tra servizi ospedalieri e servizi territoriali, dotare il sistema sanitario di tutto l’occorrente per realizzare la politica del test, trace and treat, investire sul vaccino e produrlo in grandi quantità per tutto il territorio nazionale (augurandoci che sia davvero efficace).
Per questi e altri obiettivi serve una costosa riforma del Sistema sanitario nazionale.
Oggi il governo italiano avrebbe l’opportunità di attingere a dei fondi che l’Unione europea – sotto il cappello del Mes (ex fondo salva-stati) – ha espressamente stanziato per coprire le spese di natura sanitaria necessarie per difendersi da Covid-19. Il governo deve però rapidamente abbandonare l’ambiguità sul Mes provenienti dai Cinquestelle.
Sono in ballo 36-37 miliardi che – come abbiamo appena visto – all’Italia servono assolutamente per ristrutturare la nostra sanità. Servono tanti soldi e presto. Il Mes ce li può fornire a condizioni molto vantaggiose (sui titoli a 10 anni paghiamo oggi il 2%, mentre la Francia paga lo 0%; sulle risorse Mes pagheremmo lo 0%). Ebbene, di tutta questa partita nella relazione del ministro della Salute non c’è traccia.
Non parliamo del piano di riforma della sanità italiana che pure sarebbe urgente. Non c’è traccia nemmeno della necessità di attingere rapidamente a quei fondi. Forse il ministro della Salute non è toccato dal problema?
10- Un catechismo sanitario fondato sulla stato di paura
Viceversa, ciò che non manca mai nella comunicazione del ministro è l’invito alla prudenza e alle buone regole di comportamento. Unito all’allarme perpetuo con cui avverte che il virus continua a circolare. Ora, la questione della potenza infettiva attuale e futura del virus è, com’è noto a tutti, assai dibattuta, e meriterebbe un approfondimento che qui non è possibile fare. Allo stesso tempo, la prudenza è assolutamente necessaria e serve l’impegno di tutti.
Tuttavia, con il lockdown, i cittadini hanno già dimostrato abbondantemente e diffusamente quel senso civico necessario per garantire il rallentamento del contagio ed evitare il sovraccarico degli ospedali.
Oggi, semmai, dovrebbero essere ringraziati e incoraggiati a riprendere con serenità le tradizionali attività quotidiane. L’ossessiva ripetizione dell’invito alla cautela – ispirato da un neanche tanto sottile terrorismo psicologico – è diventata ormai patologica.
Il «ricordati che devi morire» di comica memoria rimanda a una concezione medievale e paternalista del rapporto tra stato e cittadini. Già durante il lockdown questa deriva è apparsa evidente. Ma l’insistenza attuale sul perenne registro della paura è ormai inaccettabile. In mancanza di tutto ciò che abbiamo segnalato in questo rapido sommario, il compito del ministro sembra ridursi al catechismo dei buoni comportamenti.
Il tutto fondato sulla minaccia del peggio. Insomma, siamo ancora fermi, dopo quasi cinque mesi, alla narrativa catastrofista e al paternalismo etico. Non c’è bisogno di scomodare storici, psicologi, economisti, ecc. per ricordare che una società fondata sulla paura e sul moralismo moltiplica il disagio psichico della popolazione, deprime il desiderio e l’iniziativa economica, pone le basi dello stato etico. Qualcuno lo spieghi finalmente a Speranza.