Quando si affaccia il ricordo del passato, allora ci si può considerare maturi. È la lezione che si apprende leggendo “Sud”, ultimo romanzo di Mario Fortunato, edito da Bompiani, dove si ripercorrono, con sguardo a volte nostalgico a volte divertito, le vicende (complicate, va detto) di una famiglia calabrese del Novecento.
Attraverso personaggi dai contorni fiabeschi, alcuni indicati solo dal mestiere – il Notaio, esuberante personaggio centrale, o l’Avvocato, il figlio di tutt’altra pasta, o ancora il Farmacista – altri secondo i soprannomi, come Maria del Nilo o Maria-della-pioggia, si incontrano i grandi eventi della storia.
La geografia è contenuta tra il paese sperduto nella Calabria e Napoli, la capitale degli studi e del successo, in un’atmosfera che «pur raccontando eventi realistici, appare magica. Come già aveva indicato Ernesto de Martino».
Scorre così l’ascesa e caduta del fascismo – con le risse, le ammazzatine, la fuga – la guerra, la ricostruzione e il boom economico. Intorno, si affollano le vicende private delle generazioni, quasi a replicare la Macondo di Gabriel Garcia Marquez («“Cent’anni di solitudine” fu senza dubbio un libro che mi cambiò, quando lo lessi»), in un susseguirsi diverso e uguale, finché poco a poco non scompare.
Si parte da lì: dove sono finiti quei personaggi? È il motivo (letterario, ma pazienza) dell’“ubi sunt”. Vale per la memoria familiare, «cui è inevitabile pensare che ci sia un sostrato autobiografico: tutta la letteratura è autobiografia, in un certo senso» ma anche per quella collettiva.
«Nonostante tra i miei antenati ci sia Giustino Fortunato, tra i primi ad avere affrontato il problema della “questione meridionale”, il mio è un romanzo e non un trattato. Tuttavia questo non vuol dire che non sia un’opera politica, anche se l’ho compreso dopo, anzi alla fine». Insieme alla sparizione di una famiglia, si racconta «la rimozione totale del Sud. Della sua economia, della politica, della cultura e della sua società».
Le scomparse, insomma, si moltiplicano. In “Sud” ripercorrere la saga di una bizzarra famiglia borghese (ma bizzarra come ce ne sono tante) significa anche riprendere i fili di una storia messa da parte, di un punto di vista oscurato e di una dimensione ingombrante.
«Fino ai 40 anni, più o meno, il passato si presenta come un fardello. Solo dopo – ed è con la maturità – si capisce che ha, al contrario, una dimensione più estesa rispetto al futuro. Riguardare all’indietro diventa un modo per anticipare quello che verrà».
Dalla dimensione personale a quella collettiva è un passo: «Questo spiega anche perché l’Italia sia così povera di immaginazione. Non sa leggere nel proprio passato, anzi va avanti a colpi di rimozione, di strabismo. Il caso più evidente è il rapporto con il fascismo: se per i tedeschi la questione è stata affrontata, dopo 20 anni di silenzio, in modo serio e sofferto, da noi si è sempre aggirato il problema», assecondando la versione per cui «i fascisti erano cattivi, ma meno di quegli altri». Così si è vissuti tranquilli, ma al prezzo di tenere gli occhi ben chiusi.
Tutto questo non è senza effetti. «Porta a un rapporto non adulto con la nostra storia», che diventa sempre meno comune e si disperde in tante storie di parte, incomplete per natura e per volontà.
Oggi per chi è giovane «la memoria è ostica», una condizione quasi obbligata per motivi anagrafici «e perché è abituato a una realtà piatta, in cui tutto – passato, presente e futuro – è sullo stesso piano. Questa è un’epoca orizzontale. Il Novecento, al contrario, è stato un secolo molto verticale, in tutti i sensi. Compresi gli abissi in cui è sprofondata l’umanità. Questo vale per questioni meno gravi, come la psicanalisi freudiana (che altro non è che una discesa agli inferi, metaforici, della mente) fino alle follie delle ideologie, che hanno portato a distruzioni e morti».
Riprenderlo in mano, anche riguardando lungo l’albero genealogico (che ha forma verticale, appunto), vuol dire imparare a maneggiare una dimensione diversa della realtà. Che non è la magia, ma la memoria.