Greta Thunberg è entrata nella sua centesima settimana di sciopero – ha iniziato ad agosto 2018 – e insieme ad altre attiviste per il clima ha inviato una lettera al Consiglio Europeo (già firmata da oltre 70mila persone, tra cui numerosi scienziati) per incalzare i leader ad affrontare in modo più deciso la crisi climatica.
L’obiettivo dell’emissione zero di carbone entro il 2050 è, agli occhi dell’attivista svedese, insufficiente: offre solo una probabilità del 50% di riuscita, mentre per cose come queste (ed è comprensibile) occorre la certezza.
Eppure, nonostante sul tema il consenso degli scienziati sia ormai da anni granitico, la pressione mediatica è diminuita.
E qualcuno sembra approfittarne per uscire allo scoperto e dire che, forse, si è esagerato. Che non è vero che ormai sia tutto perduto. E che un approccio più razionale e tranquillo alla questione è possibile.
Uno di questi è Bjorn Lomborg. Ha appena pubblicato “False Alarm”, con cui cerca di stemperare la tensione sul clima. Lo statistico danese, già noto per le sue posizioni controverse (non a caso “L’ambientalista scettico” del 1998, è il titolo che lo rese famoso perché negava l’urgenza del problema climatico), in sostanza torna sul luogo del delitto.
E rilancia: il global warming c’è, è un problema, ma non è così grave come si dice.
«Nell’epoca AC, ante-Coronavirus, l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva definito il Climate Change come “la peggiore minaccia per la salute globale del 21esimo secolo”», scrive in un suo intervento pubblicato sul giornale canadese The Globe and The Mail, in cui riassume il punto di vista espresso nel volume.
«I media, felicemente, hanno raccontato un flusso certo di scenari climatici catastrofici. Gli attivisti hanno trovato queste distopie eccellenti per il fundraising. E i politici in cerca di voti hanno promesso di salvarci con regolamentazioni più rigide che mai». Il risultato, «non sorprendente», è che «tanti si sono convinti che la fine del mondo climatica sia vicina». Un’apprensione malriposta.
«L’allarmismo ci rende difficile pensare in modo intelligente a soluzioni climatiche efficaci» e in più «sposta l’attenzione da altri problemi globali altrettanto importanti».
Razionalizza (o minimizza) la qustione, portando a sostegno alcuni dati emersi da diverse ricerche. Gli studi dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (meglio noto come IPCC) dell’Onu, per esempio, secondo cui, nello scenario peggiore, il costo economico degli effetti del cambiamento climatico, nel 2070, ammonterebbe a 7 dollari sul reddito medio di una persona.
«Anziché crescere di 363 dollari crescerà di 356. Non è la fine del mondo». Investire trilioni in iniziative per impedirlo sembra del tutto irrazionale.
Non solo. Aggiunge che secondo le stime per l’innalzamento del livello del mare, che vengono aggiustate di volta in volta con dati sempre più preoccupanti, «arriveranno a coinvolgere per i prossimi 80 anni almeno 187 milioni di persone».
Un dato eccessivo, a suo parere, perché calcolato sul presupposto «che nei prossimi 80 anni nessuno di quelli che vive sulla costa faccia nulla per proteggersi».
Lo stesso studio, del resto, considera che con un certo adattamento (dighe o murature, per esempio) il numero degli “sfollati” dal mare scenderebbe a «305mila persone», più o meno «la metà del numero di persone che ogni anno lasciano la California». Di cosa stiamo parlando?, sembra chiedersi.
Questo non significa «che il Climate Change» non sia un problema, e ancor meno che non sia in atto. Soltanto, che i toni apocalittici sono fuori luogo.
La battaglia non è facile, ma nemmeno impossibile, anche se sulla ricetta dice poco: servirà «investire di più in tecnologia» per favorire la transizione all’energia verde, aggiungendo una carbon tax (molto bassa) e affidandosi al mercato. L’umanità, tra salute e nutrizione, aggiunge, ha molte altre cose a cui pensare.
Eppure non tutti sono convinti. Anzi. Il premio Nobel Joseph Stiglitz, che recensisce il volume di Lomborg sul New York Times, lo definisce «un libro pericoloso», con una tesi «semplice e semplicistica» e che, soprattutto, è piena di falle.
Con piglio certosino, le passa tutte in rassegna: dalla contraddizione di sostenere che la soluzione sia nell’innovazione e dire al tempo stesso che si è già investito abbastanza in innovazione («Cosa resta da fare, allora? Pregare?»), all’uso discutibile di alcuni studi. In particolare sono infondate le ricerche di William Nordhaus dell’Università di Yale, cui Lomborg si rifà in modo fedele, secondo cui i costi di limitare l’innalzamento delle temperature fino a 1,5 /2 gradi Celsius sopra i livelli post-industriali sarebbero enormi.
Lo dice «un panel internazionale, in cui figuro anche io», continua Stiglitz, «e che si chiama High Level Commission on Carbon Prices». Per lui e gli altri studiosi, che ricevono il sostegno della Banca Mondiale, «i costi sarebbero contenuti».
Non solo: un altro errore che lo studioso danese farebbe è quello di «sottovalutare i danni collegati al riscaldamento globale», cioè l’acidificazione delle acque, un numero maggiore di eventi estremi (tempeste, uragani, carestie e inondazioni) con tutta la devastazione che ne consegue. «Solo nel 2017 gli Stati Uniti hanno perso l’1,5% del Pil» per questo. Altro che 7 dollari.
E ancora: con l’aumentare dei livelli di anidride carbonica, si entra in «territori sconosciuti», e «mai dall’alba dell’umanità si era vista una situazione del genere». Tutti i modelli predittivi devono essere aggiornati «e quando avviene è sempre in una direzione: quella peggiore».
Una stroncatura, insomma. Ma anche di più: nel braccio di ferro a distanza tra i due studiosi, fatto a colpi di ragionamenti, idee e argomentazioni (e anche posizioni retoriche) sembra intravedersi qualcosa di nuovo.
Non certo una marcia indietro sul clima, né un rinnegamento di quanto detto finora, come vorrebbe Lomborg. Bensì l’inizio di una discussione, seria e ragionata, che potrebbe sostituirsi alla cancel culture climatica di qualche tempo fa. Portare argomentazioni anziché grida di allarme può fare solo bene.