Nel 1967, il numero di aprile di Cosmopolitan conteneva un articolo sulla programmazione intitolato “The Computer Girls”. Le ragazze dei computer, riferiva la rivista, stavano facendo “un tipo di lavoro del tutto nuovo per le donne” nell’epoca dei “grandi e straordinari computer” insegnando a quelle “macchine miracolose cosa fare e come”.1 Proprio come una donna vent’anni prima avrebbe potuto scegliere una carriera nell’istruzione, nell’assistenza infermieristica o come segretaria, oggi, sottintendeva l’autore dell’articolo, avrebbe potuto prendere in considerazione di lavorare nell’ambito della programmazione informatica.
Nelle fotografie che accompagnavano l’articolo, una sistemista dell’IBM di nome Ann Richardson era ritratta con in mano schede perforate, mentre accende interruttori e “inserisce fatti” nel computer. In una camicetta a righe chic senza maniche e un’acconciatura ordinata coi capelli cotonati, era circondata da uomini senza volto in vestiti eleganti identici, che la guardavano sorridere, una minigonna tra i mainframe.
Grace Hopper, a quel punto sessantenne, era tornata a lavorare attivamente nella marina, a capo di un gruppo che gestiva linguaggi di programmazione nell’Ofce of Information Systems Planning. Intervistata per l’articolo di Cosmopolitan, ricorse a una delle sue analogie preferite sulle donne e la programmazione, paragonando la scrittura di programmi alla pianificazione di una cena: “Bisogna pianificare prima e programmare ogni cosa in modo che sia tutto pronto quando ne hai bisogno”.
Potrebbe sembrare un’afermazione riduttiva da parte di una persona che avrebbe sviluppato un sistema tattico per sottomarini nucleari adottato da tutta la flotta del paese, ma lo stile di Grace era quello. Le applicazioni pratiche erano la cosa più importante per lei, e collegava sempre i computer al vivere, al respirare, alla vita di tutti i giorni. L’ultima parola nell’articolo veniva però data a un programmatore maschio: “Naturalmente ci piace essere circondati da ragazze,” dichiarava “sono più carine di noi”.
Ma qualcosa cambiò per la generazione di programmatrici successiva a quella di Grace Hopper. Anche se l’articolo di Cosmopolitan suggerisce che le donne venissero incoraggiate a intraprendere la carriera di programmatrici in alternativa al lavoro di segretarie, il settore era sempre meno accogliente per le donne rispetto a dieci anni prima. Alcune stime4 fissano la percentuale di programmatrici negli anni Sessanta tra il 30 e il 50 percento della forza lavoro, ma invece di essere a capo di dipartimenti e responsabili dei miglioramenti della disciplina, figuravano sempre di più “nei ruoli più bassi del bacino occupazionale”, in mansioni di status inferiore come perforatrici di schede, l’equivalente degli anni Sessanta dell’inserimento dati.
Allo stesso tempo, gli esperti di tecnologia scrivevano spesso con enfasi crescente di una “crisi del software” che assediava l’industria informatica. A causa di un’enorme mancanza di programmatori specializzati, i progetti di software arrivavano tardi, senza specifiche e pieni di bug. Molti furono i fallimenti netti5 e pubblici: all’inizio degli anni Sessanta, la IBM consegnò il sistema operativo OS/360 con un anno di ritardo e al quadruplo dei costi previsti, e la NASA fu costretta a distruggere l’astronave Mariner I, che doveva esplorare i misteri di Venere, per un semplice errore di programmazione.
Scrivere programmi sarà anche paragonabile alla pianificazione di una cena, ma esige perfezione a un livello mai richiesto da nessuna precedente impresa umana: una singola virgola fuori posto può inviare un razzo a capofitto verso la Terra. “Se un carattere, una pausa della formula magica, non è rigorosamente nella forma appropriata, la magia non funziona”6 scrisse Frederick Brooks, a capo del disastroso sistema operativo OS/360 della IBM. Questo può rendere la programmazione difcile da imparare.
Nei primi decenni di attività fu anche un ostacolo al ritmo di produzione industriale che avrebbe guidato la crescita dell’attività di hardware informatici: scrivere software è come scrivere poesia con la precisione inflessibile delle equazioni, e ha la capacità pratica di avere un impatto sulle vite umane su scala inaudita.
Alcuni storici hanno attribuito la “crisi dei software” allo sviluppo sproporzionato di hardware e software: con il progressivo ingresso sul mercato di computer più veloci e intelligenti, i programmatori non riuscivano a stare al passo. Altri parlano di uno scontro tra le personalità dei programmatori – se non delle donne, allora di uomini estremamente creativi, difcili e occasionalmente arroganti – e i loro rigidi manager nell’industria e nel governo.7
Ma c’è un terzo punto di vista che riflette come la crisi dei software coincise con il lungo e lento declino della presenza delle donne nei ruoli di rilievo in tutta l’industria della programmazione. Alla fine degli anni Sessanta, anche quando Cosmopolitan individuava la programmazione come la chiara alternativa al lavoro di centralinista, le donne nel campo dell’informatica venivano pagate significativamente meno delle loro controparti maschili. In una tradizione che risale direttamente a quegli ufci di calcolatori umani del Diciannovesimo secolo, che assumeva donne per risparmiare denaro, le programmatrici venivano pagate circa 7.763 dollari l’anno rispetto a una cifra media di 11.193 dollari di salario annuo per gli uomini impegnati nello stesso lavoro.
Questa discriminazione salariale, unita a una mancanza di volontà strutturale da parte delle aziende informatiche di prevedere obblighi di assistenza all’infanzia, costrinse molte donne a uscire di scena. Nel frattempo, la crisi dei software divenne così grave che la NATO indisse una conferenza internazionale nel 1968 per affrontare il problema. Non fu invitata nessuna donna.
La conferenza si tenne nella località sciistica bavarese di Garmisch. Tra una discesa e l’altra sullo Zugspitze, gli uomini invitati sfornarono un nuovo approccio alla programmazione che speravano arginasse alcuni dei problemi che tormentavano l’industria informatica.
Il cambiamento più significativo da loro operato fu, probabilmente, semantico: la programmazione, decisero, sarebbe da quel momento in poi divenuta ingegneria del software. In tal modo, sarebbe stata considerata un ramo dell’ingegneria invece che un campo solitario e in crescita selvaggia frequentato da spostati fieramente indipendenti e autonomi, e da donne. L’ingegneria è un lavoro con chiare credenziali, non un sacerdozio fumoso.
Questo cambiamento segnalò una più ampia rinegoziazione dello status delle professioni informatiche di cui si sarebbe discusso nelle riviste e nelle società del settore, reclutando studi e programmi di certificazione per tutti gli anni Sessanta e Settanta.
Più la disciplina divenne professionalizzata, più divenne implicitamente maschile. L’introduzione di prerequisiti ufficiali d’istruzione per i lavori di programmazione, per esempio, rese ai programmatori autodidatti più difficile trovare un impiego, un cambiamento che penalizzò le donne in particolare e soprattutto quelle che dovevano togliere tempo alla formazione universitaria per allevare i figli.
Se la programmazione informatica “cominciò come un lavoro femminile” scrive lo storico Nathan Ensmenger “doveva essere reso maschile”10. Il passaggio dal programmatore all’ingegnere di software fu un segnale abbastanza semplice da interpretare per le donne programmatrici.
Il nuovo paradigma, per quanto potesse sembrare sottile “portava con sé idee non esplicitate su quale genere potesse elevare meglio la disciplina e lo status della programmazione”11 scrive Janet Abbate. La storica sostiene che questa esclusione simbolica, unita ai fattori più concreti in gioco – discriminazione salariale, mancanza di assistenza all’infanzia, carenza di supporto all’istruzione – indicava alle donne di evitare l’informatica proprio nel momento in cui esisteva una grande mancanza di talenti nell’industria.
Come gettare sale sulla ferita: le competenze che le programmatrici portarono sul tavolo di lavoro erano precisamente quell’“ingegneria dei software” di cui c’era un disperato bisogno. La crisi dei software, dopotutto, era una crisi legata ai prodotti finali.
La ragione per cui i progetti arrivavano costantemente in ritardo e sforavano i budget erano le aspettative incerte. Realizzare bene i requisiti iniziali di un software richiede di essere in grado di ascoltare il cliente, analizzare i vaghi problemi del mondo reale per tramutarli in programmi eseguibili, e anticipare le esigenze di utenti non del settore.
Malgrado la disciplina avesse la reputazione di essere roba per perfezionisti introversi, le competenze sociali sono preziose nella programmazione, persino fondamentali. Grace Hopper lo aveva compreso bene, e fu proprio la sua istruzione in una vasta gamma di campi non tecnici ad averla resa una programmatrice così profondamente competente. Come raccontò a una storica nel 1968, per operare il collegamento tra “gli informatici” e il mondo dei clienti là fuori, con i loro problemi e le possibili applicazioni, “avevi bisogno di persone con più lessici”.
Questi lessici non erano femminili in modo innato, ma la capacità di essere concilianti nella comunicazione è di certo percepita nella nostra società come un valore femminile. Durante la crisi dei software, gli aspetti della loro progettazione che si afdavano a “competenze stereotipicamente femminili di comunicazione e interazione” furono “svalutate e trascurate”, ignorate dai programmatori maschi e non tenute da conto nei curricula di ingegneria dei software.
Di conseguenza l’industria ne sofrì, e forse ne sofre ancora. I primi computer divenivano obsoleti ancor prima di diventare operativi. Il Mark I condusse al Mark II, e poi al III; nel momento in cui il progetto dell’ENIAC fu congelato e la costruzione avviata, John Mauchly e J. Presper Eckert stavano già inventando il suo successore.
I primi computer avevano una vita lunga solo qualche anno prima che arrivasse qualcosa di più piccolo, veloce e intelligente: uno schema che è proseguito a rotta di collo fino al presente. Lo stesso si può dire per la programmazione, che procedette per balzi da tedioso compito aggiuntivo a forma d’arte in meno di un decennio.
Nel 1950, quando le macchine più efcienti sulla Terra richiedevano interi piani di edifici, l’IBM predisse che il mercato globale dei computer sarebbe stato di cinque esemplari – in totale. Entro il 1960 erano in uso, in tutto il mondo, duemila computer. Negli anni Novanta, quando finalmente ho fatto il mio ingresso online14, l’IBM vendeva quarantamila sistemi alla settimana.
Le schede perforate divennero nastro magnetico e il codice divenne un linguaggio, i transistor cedettero il passo ai circuiti integrati e poi ai microprocessori, attraverso una miniaturizzazione esponenziale, mentre dalle scatole che li custodivano cominciarono a spuntare schermi e tastiere, trasformandoli in oggetti casalinghi, ma anche portali per il lavoro, il gioco e la connessione.
Quando penso alle prime donne calcolatrici, che leggono con attenzione in gruppi di lavoro chine su scrivanie piene di numeri, sento un catalizzatore nascosto, qualcosa che sembra aver scatenato una sequenza di eventi che conducono alla nostra condizione attuale, dipendente dalla tecnologia.
Le donne che inventarono la programmazione, che fecero da mediatrici tra il metallo e la mente, divennero le donne capaci di scrivere le eleganti astrazioni di linguaggio che ci hanno permesso di parlare ai computer come parliamo con le persone. Le loro innovazioni sono soltanto un po’ più difcili da aferrare di chi miniaturizzava e perfezionava l’hardware di un computer.
L’ENIAC oggi è scomposto, le sue quaranta unità sono sparse nei musei di tutto il paese, ma è ancora un oggetto, che prova da sé la sua esistenza. I programmi dell’ENIAC, invece, erano interventi condotti nel tempo. Esistevano soltanto in quei brevi momenti in cui l’elettricità pulsava attraverso il gruppo di cavi collegati per la mansione; venivano staccati e ridisposti di continuo. Le artefici di quelle prime disposizioni fugaci – le kiloragazze, le ragazze dei computer, le operatrici, le programmatrici, comunque le vogliate chiamare – cambiarono il mondo.
Per usare le parole eleganti della filosofa Sadie Plant: “Quando i computer erano enormi ammassi di transistor e valvole che non era semplice convincere a mettersi in moto, erano le donne a farlo. Quando i computer divennero i microcircuiti di chip in silicio che conosciamo furono le donne ad assemblarli. […] Quando i computer erano ancora solo una teoria, erano le donne a scrivere i programmi che li facevano funzionare. E quando i calcolatori erano persone in carne e ossa, si trattava di donne”.
Con i nostri cervelli del Ventunesimo secolo possiamo tutti essere intelligenti come Ada Lovelace, come le calcolatrici di Harvard, o come una calcolatrice balistica in tempo di guerra alla Penn University. Ma possiamo arrivare fino a un certo punto prima di incontrare la soglia definitiva, il softto di vetro che copre l’umanità intera. Il computer che uso adesso, un MacBook Pro top di gamma, sarà obsoleto quando queste parole saranno stampate.
Il linguaggio macchina che Grace Hopper sognava si sarebbe scritto da solo ora è la macchina che alimenta il mondo. Mi ha permesso di trovare le donne che incontreremo in questo libro, inviare loro email dal nulla, salutare con la mano i loro visi quasi per nulla pixelati e organizzare incontri, per finire con me nei loro salotti, a guardare manuali, fotografie, a bere tè verde in loro compagnia. Così succede con le tecnologie che cambiano il mondo. Non è mai facile anticipare quello che diventeranno, o dove ti porteranno.
Da Connessione Storia femminile di Internet,(Luiss University Press), 264 pagine, 19.50 euro