Di fronte all’ondata di proteste che ha attraversato l’America in queste ultime settimane, e al dibattito pubblico che ne è seguito, si profila la necessità di un prontuario, cioè di un elenco delle nuove parole (alcune coniate da poco, altre che hanno conosciuto nuovi significati) per orientarsi nelle diverse posizioni in campo.
Questo articolo di Marguerite Ward su Business Insider è una guida per i tempi moderni. Mette in fila in ordine alfabetico una sorta di terminologia della giustizia sociale, illustrando i concetti fondamentali e gli orientamenti interpretativi.
Si comincia con “allyship”, cioè “essere alleati”, che secondo i dizionari sarebbe «lo stato e la condizione di chi si trova a essere in un’alleanza». Ma secondo i nuovi canoni è qualcosa di più. Lo spiega il Rochester Racial Toolkit: si può parlare di “Allyship” solo «come di un processo che dura tutta la vita in cui si costruiscono rapporti basati su coerenza e fiducia con individui marginalizzati e gruppi di persone».
Ma c’è anche altro. Se uno è un “alleato” in questa battaglia, non può dirsi “non razzista”. Dovrà essere “anti-razzista”. La differenza è sottile, ma importante: perché deve adottare, continua l’articolo su Business Insider «una serie di credenze e mettere in moto azioni che promuovano l’inclusione e l’uguaglianza delle persone di colore nella società».
A questo proposito, anziché usare “persone di colore”, è meglio la formula “Bipoc”, che è molto americana e indica i «neri (Black), gli indigeni (indigenous) e le persone di colore».
Spesso nei discorsi aziendali si parla di “diversità”, “equità” e “inclusione” senza badare troppo alle differenze di significato.
La prima si riferisce a tutte le azioni per «aumentare il numero di persone che provengono da realtà marginalizzate dove sono sottorappresentati», la seconda «quelle che cercano di promuovere la giustizia, la trasparenza e l’imparzialità nelle procedure e nei processi delle istituzioni che si occupano di distribuire risorse», mentre l’inclusione avviene quando «persone o gruppi provenienti da background diversi vengono accettati, accolti e trattati allo stesso modo».
Ma anche: «L’inclusione è senso di appartenenza. Le culture che includono fanno sì che le persone si sentano rispettate e valorizzate per quello che sono».
Il concetto di “emotional tax”, cioè “tassa emotiva”, è proprio l’opposto di questi tre. Indica «il lavoro mentale quotidiano che tocca alle persone marginalizzate per sentirsi incluse, rispettate e sicure».
Per la precisione, «è una combinazione tra: sentirsi sempre in guardia per proteggersi dal pregiudizio, sentirsi diversi sul posto di lavoro a causa del proprio genere, della propria razza e della propria etnia, con gli effetti che ne derivano sulla salute, sul benessere e sulla capacità di trovarsi bene al lavoro».
Tra le altre parole importanti figura “cisgender”, che si usa per indicare le persone «il cui genere coincide con il sesso». Serve a evitare, «quando si parla di trans, di usare termini problematici come “normale” per descrivere chi è cisgender». A questo proposito si collega “Eteronormatività”, cioè l’assunzione (di solito di chi è eterosessuale) di considerare tutti «eterosessuali», o di considerare «l’eterosessualità come lo stato di “normalità”».
Serve piuttosto concentrarsi sulla “intersezionalità”. Parola coniata nel 1989 dalla giurista americana Kimberlé Crenshaw, che individua la «sovrapposizione di diverse identità sociali», cui possono corrispondere varie «discriminazioni, oppressioni».
È un approccio multidimensionale in grado di rendere conto di tutte le varie difficoltà che un individuo può incontrare a seconda di alcuni aspetti della sua identità.
Tra queste ci sono le “microaggressioni”, cioè piccole «espressioni di razzismo, sessismo e di altro genere di discriminazioni» che potrebbero essere considerate innocue da chi le fa ma, in realtà, provocano sentimenti di violazione e insicurezza da parte di chi le riceve.
Una delle più evidenti è il “misgendering”, cioè identificare una persona (spesso una persona transgender) con il genere sbagliato.
Altro termine da conoscere è “non binary”, cioè «un aggettivo che si riferisce a una persona che non si identifica in modo esclusivo come uomo o come donna». Possono «identificarsi come entrambi, come qualcosa nel mezzo o come qualcosa del tutto al di fuori di queste categorie».
Per identificare invece le reazioni «eccessive da parte dei bianchi di fronte a quantità minime di stress razzista» si parla di “White Fragility”, espressione coniata dallo scrittore Robin DiAngelo.
Si hanno casi di “White Fragility” quando il bianco in questione «manifesta rabbia, risentimento e scoppi di ira» quando gli viene fatto notare di avere avuto un atteggiamento razzista. «Cerca di difendersi con scuse, o piangendo, anziché ascoltare e accettare ciò che dice l’altra persona».
Del resto, si tratta di situazioni che lo mettono in crisi, essendo abituato al cosiddetto “White Privilege”, cioè l’insieme di benefici e vantaggi di cui gode per il solo fatto di essere bianco (o sembrarlo).
È una esperienza che si vive «senza nemmeno esserne consapevoli», ma che si riflette su questioni quotidiane come «camminare in un supermercato senza essere seguito dal commesso perché ti sospetta, in quanto bianco, di essere un ladro. O camminare per strada senza timore di essere fermato senza motivo dalla polizia».