Geni del marketingll dna, la razza e la truffa dei test per capire la propria ascendenza

Nonostante i continui tentativi di riesumarlo, il razzismo non poggia su fondamenti reali. Lo ricorda Adam Rutherford nel suo “Cosa rispondere a un razzista” (Bollati Boringhieri). Analizza, caso per caso, ciò che la scienza dice (e anche quelle che sono solo invenzioni)

TIZIANA FABI / AFP

Quando si parla di dna entra in gioco un ulteriore elemento di confusione. La biologia fondamentale dice che ereditiamo metà del nostro genoma da nostra madre e l’altra metà da nostro padre. Questa è una verità universalmente riconosciuta, valida per tutti gli esseri umani di ogni tempo: durante il concepimento si crea un genoma interamente nuovo.

Tuttavia, il processo di ricombinazione genetica che avviene durante la formazione di spermatozoo e ovulo fa sì che ognuna di queste due cellule sia unica e trasporti una metà unica di genoma (di conseguenza, l’altra metà andrà perduta nelle generazioni successive, posto che lo spermatozoo o l’ovulo riescano nella loro missione).

Questo significa che non viene trasferita la stessa metà a ogni generazione. Di generazione in generazione, i discendenti cominciano a perdere il dna dei loro antenati. Accumulandosi nel corso del tempo, la quantità di dna perduta diventa enorme: ognuno di noi ha solo il dna di metà dei propri antenati fino a undici generazioni prima.

La genealogia e la genealogia genetica non coincidono alla perfezione, e a mano a mano che si risale indietro nel tempo si allontanano sempre di più.

È dunque possibile non avere alcuna parentela genetica anche con antenati vissuti soltanto nella metà del XVIII secolo. Questo invalida ulteriormente il tentativo di usare la genetica per stabilire l’appartenenza a una tribù, una razza o un altro tipo di gruppo identitario.

Come abbiamo visto, da qualche anno sequenziare il dna è diventato una pratica così veloce e poco costosa che sono spuntate ovunque aziende dedite all’estrazione di geni, di solito a partire da un campione di saliva, per poter leggere specifiche porzioni di dna e formulare previsioni o fare affermazioni su un qualunque numero di varianti personali.

Alcune di queste aziende si concentrano sulla salute o sulla dieta, sulle capacità sportive o su ambiti ancora più assurdi, come le preferenze in fatto di vino o la compatibilità con un potenziale coniuge.

Qualcuna ha raggiunto dimensioni industriali, facendo della genealogia genetica un vero e proprio business. Altre sono sparite in fretta, in seguito a stravaganti dichiarazioni sull’appartenenza a tribù mai esistite, a nomadi erranti o a figure romanticizzate di vasai e ceramisti.

La selezione naturale delle forze di mercato ha dunque scartato e portato all’estinzione alcune di queste imprese, ma, fra le rimanenti, 23andMe e AncestryDNA sono i veri colossi. Le due aziende possiedono i genomi di circa 26 milioni di clienti, che hanno pagato per consegnare la propria saliva, e quindi il dna, in cambio di qualche informazione sul proprio patrimonio genetico.

Questo genere di servizi ricorre a strategie di marketing persuasive e accattivanti, che di solito si appellano alla nostra vanità, alla nostra curiosità e al senso di appartenenza, utilizzando slogan come «Trova le tue radici», alludendo ad antenati esotici o sconosciuti. 23andMe ha approfittato della finale di Coppa del mondo maschile del 2018 per lanciare campagne pubblicitarie che suggerivano: «Tifa per le tue radici: un vero tifoso sostiene i paesi che riflettono il suo dna unico».

Immagino che nel reparto marketing dell’azienda non si conoscessero molti tifosi di calcio.

Sul sito di AncestryDNA, i clienti raccontano storie di scoperte personali e identitarie: «Ho iniziato a riflettere su quanto la mia storia famigliare definisse la mia identità», dice Mark. «Da giovane ho sempre pensato di essere britannico al 100%. Mio padre è nato a Edgware e mia mamma nell’Hampshire». Secondo la pubblicità, però, Mark ha scoperto di avere nonni russi, tedeschi e greci, e il test del dna gli ha comunicato che è «britannico soltanto al 40%, tedesco al 25% e greco al 35%».

Naturalmente qui non si tratta di sentimenti razzisti. Al contrario: queste aziende promuovono l’idea che siamo tutti un allegro miscuglio, con origini in ogni dove e di cui forse non sappiamo nulla a causa di storie familiari andate perse o sconosciute.

Ciò non significa che poggino su solide basi scientifiche. Servizi del genere confrontano il singolo dna con i database di altri clienti (cioè altre persone viventi), individuando i territori in cui risiedono.

La mappa che si riceve dopo qualche settimana rileva la somiglianza tra il cliente e le popolazioni viventi, dalla quale si dovrebbero dedurre le proprie radici ancestrali.

Il procedimento di per sé non è scorretto, perché evidenzia quali popolazioni hanno dato un contributo genetico al nostro genoma, mostrando così le probabilità di una parte di ascendenza.

Il sistema può essere ottimo per identificare parenti stretti, e sono stati riferiti casi di ritrovamenti di fratelli e sorelle perduti, di cugini o dei genitori sconosciuti di figli adottati. Per la maggior parte dei clienti, però, i risultati sono vaghi e generici.

Dati grossolani come quelli che indicano origini «al 40% britanniche, al 25% tedesche e al 35% greche», o qualunque altra combinazione, mi lasciano perplesso; anche perché non riportano il numero né il tipo di parentela degli antenati con origini greche più antiche.

Un risultato più accurato sarebbe il seguente: «Benché il suo genoma abbia ricevuto un contributo genetico significativo da parte di individui di recente associazione geografica con i moderni stati-nazione della Germania e della Grecia, pur non potendo sapere con certezza quali fossero questi fra i suoi antenati, il suo albero genealogico si estende in tutta Europa e, in proporzione minore ma comunque significativa, anche nel mondo intero. Ciononostante, lei rimane britannico al 100%, perché è così che viene stabilita la cittadinanza legale. La genetica non cambierà questo fatto». Ma ammetto che sarebbe poco efficace sul piano del marketing, e forse un regalo di Natale meno gradito.

Servizi e risultati di questo tipo rafforzano inoltre l’antica fede in una sorta di essenzialismo derivante dalla nazionalità, una fede che grava sulla comprensione comune dell’ereditarietà e della genetica.

I geni svolgono un ruolo significativo nella nostra biologia,e anche nel nostro comportamento, ma dobbiamo considerare che, pur potendo misurare tale contributo (ereditabile) nelle popolazioni viventi, non necessariamente ne cogliamo il funzionamento, e di certo possiamo dire ben poco della stabilità di questi contributi genetici applicati ai tratti personali nel corso delle generazioni.

Origini «greche al 35%» hanno qualcosa a che fare con la personalità o il comportamento?

Spesso, e senza pensarci bene, le persone mi rivelano che la scoperta di origini inaspettate ha permesso loro di spiegarsi in qualche modo la propria personalità, e si tratta sempre di tratti positivi o affascinanti, basati su stereotipi nazionali, come la credenza che gli spagnoli siano focosi, per esempio, i tedeschi metodici, i francesi appassionati e gli scozzesi coraggiosi.

Nessuno mi ha mai detto che è a causa delle sue origini se è debole, terrorizzato dai ragni o un fifone leccapiedi. Sono sicuro che vi sia un granello di verità nell’idea che esistano caratteristiche nazionali, poiché, con il passare del tempo, le persone che vivono insieme e subiscono le stesse influenze culturali tendono a esibire comportamenti più simili fra loro che con altri.

Ma che queste caratteristiche siano codificate geneticamente e possano essere all’origine del comportamento di una persona è improbabile.

da “Cosa rispondere a un razzista. Storia, scienza, razza e realtà”, di Adam Rutherford, Bollati Boringhieri editore, Torino, traduzione di Bianca Bertola, 2020, 16 euro

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