La questione palestinese è di fatto chiusa: lo storico accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti ne sancisce infatti una svolta epocale. Innanzitutto quanto a leadership: gli accordi con Israele da oggi non passano più per la dirigenza palestinese dell’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen, arroccata da otto anni su sterili posizioni denunciatarie, ma per trattative dirette tra Gerusalemme e l’Arabia Saudita, patron degli Emirati che hanno fatto da apripista per la formazione di un blocco sunnita alleato di Israele che da qui a poco verrà formalizzato da Mohammed bin Salman, il vero re di Ryad.
Primo passo di questo nuovo tavolo negoziale che produce risultati: la sospensione dell’annessione israeliana della valle del Giordano. Altri seguiranno.
In secondo luogo, la questione palestinese verrà gestita d’ora in poi da questo blocco sunnita nelle trattative con Israele in diretta funzione anti Hamas, fazione palestinese dei Fratelli Musulmani. Quindi, Israele si allea con una parte del mondo sunnita che contrasta l’Islam politico.
Gli Emirati infatti, assieme alla Arabia Saudita contrastano manu militari in Libia il governo di Tripoli, proprio perché egemonizzato dai Fratelli Musulmani, e hanno costruito assieme all’Egitto un fronte sunnita contrapposto a quello diretto dal turco Tayyp Erdogan che polarizza la Fratellanza in tutta la Umma.
Un nuovo conflitto ideologico-politico che spacca in due il mondo sunnita, polarizzato su Ankara e Ryad (e Abu Dhabi) che emana potenti onde d’urto in Asia (in Libano, Pakistan, Bangladesh, Indonesia e Malesia) e in Africa (in Egitto, Sudan, Ciad, Nigeria, Algeria, Libia, Tunisia e Marocco).
In prospettiva, dunque, iniziando il processo di alleanza con le monarchie del Golfo, Netanyhau ha ottenuto quel che voleva: il placet di una parte consistente del mondo sunnita a un congelamento sine die della occupazione militare israeliana della Cisgiordania, il blocco eterno di Gaza e quindi la fine sostanziale, se non formale, dello Stato palestinese.
Il tutto, grazie anche e soprattutto alla divisione sterile della leadership palestinese con spaccatura inguaribile tra la componente che fa capo ad Abu Mazen e quella di Hamas, fenomeno secolare (la frattura risale al 1920) e insanabile, causa prima della sterilità del nazionalismo palestinese. Quale stato palestinese può nascere se è già tanto se Ramallah e Gaza non si massacrano armi alla mano (come è accaduto a Gaza nel 2007) e se le due componenti palestinesi non riescono a mettersi d’accordo da 14 anni neanche per indire nuove elezioni?
Va detto che questo porterà probabilmente anche Abu Mazen a seguire Hamas nell’alleanza con la Turchia di un Erdogan, che però poco può fare sul terreno, se non aumentare le sue dichiarazioni verbali antisioniste e tentare provocazioni sterili come quella della Mavi Marmara.
Ma l’accordo (meglio: il processo negoziale) tra le monarchie del Golfo e Gerusalemme ha un valore dirompente e storico soprattutto per altre ragioni.
Da oggi la “trincea sunnita” contro l’Iran ipotizzata da Condoleeza Rice sul modello reaganiano di contenimento-svuotamento dell’Unione sovietica ingloba – in funzione di punta di diamante – lo Stato degli ebrei. Questa svolta epocale ha un immenso valore sul piano militare e uno enorme sul piano religioso.
Dal punto di vista militare gli accordi, intessuti già da due anni, tra Gerusalemme e la “Sparta araba” (gli Emirati hanno investito tutto su uno straordinario potenziale militare) che nell’arco di poco tempo si allargherà a Ryad, mettono in campo una massa d’urto, soprattutto di forza aerea, che minaccia pesantemente l’Iran.
Si è così costituita una deterrenza massiccia alla luce del sole, che permette di colpire potenzialmente tutti i siti strategici iraniani. Base materiale vuoi per una guerra, vuoi per un processo negoziale con gli ayatollah.
Dal punto di vista religioso, il riconoscimento del diritto degli ebrei al loro Stato da parte di paesi non confinanti, chiude la follia della guerra araba contro i sionisti iniziata col Gran Muftì nel 1920. Follia che tuttora motiva Hamas e una grossa parte della Anp, che sostiene che la «terra dal Giordano al mare (Israele) è un Waqf, un dono di Allah alla Umma, al popolo dell’Islam» nel quale gli ebrei non possono che essere ospiti o cittadini di seconda classe, mai detentori di uno Stato.
L’accordo tra Gerusalemme e Abu Dhabi, a cui seguiranno quelli con le altre monarchie del Golfo, elimina quindi la terribile valenza teologico-apocalittica che la dirigenza araba e palestinese ha sempre dato al conflitto con i sionisti, e infine Israele viene riconosciuto come uno Stato come tutti gli altri.
Si torna insomma alla concreta realpolitik di Feisal al Hashemi, poi re dell’Iraq, che nel gennaio 1919 sottoscrisse un accordo formale con Chaim Weizman, presidente della organizzazione sionista, di reciproco, pacifico e amicale riconoscimento dei diritti di arabi ed ebrei ad avere il loro Stato in Palestina.
Si chiude così un secolo perso nel sangue di combattimenti furiosi a causa dell’estremismo religioso islamico dei palestinesi a iniziare dal Gran Muftì per finire con Arafat e Hamas. Fondamentale, sul piano religioso, ma con immense ricadute politiche e pratiche, il fatto che l’intesa sia stata denominata dalle due parti “Accordo di Abramo”.
Il riferimento forte ed esplicito è a una comune e fraterna origine religiosa di ebrei e musulmani, l’opposto esatto ed estremo a quel rifiuto teologico arabo di Israele che ha motivato tutte le guerre, le Intifade e gli attentati palestinesi da un secolo in qua. Un potente ritorno alla parte ecumenica, di pace tra ebrei e musulmani, contenuta nelle sure meccane del Corano. Il rifiuto delle maledizioni belliciste contro gli ebrei, dettate a Maometto dalla contingenza della difesa bellica della Medina.
In apparenza, un dato marginale. In realtà il ripudio, lo ripetiamo, perché nessun commentatore ha notato questo dato dirompente, della motivazione teologica, addirittura apocalittica, che ha motivato da un secolo il conflitto israelo-palestinese.
Dunque, sta mutando completamente la dinamica dei rapporti di forza in Medio Oriente a seguito di una evoluzione con tinte drammatiche interne alla corte Saudita, che si riflette con influssi positivi in tutte le monarchie del Golfo.
A Ryad infatti il giovane principe Mohammed bin Salman con crudeltà e cinismo sta eliminando, imprigionandoli o emarginandoli, tutti i concorrenti al trono – che si è già assicurato – nel nome di una “Vision 2030” che prevede una modernizzazione a tappe forzate del paese, una industrializzazione massiccia e la leadership di un fronte sunnita insieme in funzione anti iraniana e di distruzione del forte influsso che hanno i Fratelli Musulmani in tutti i paesi sunniti, a iniziare dalla Turchia di Erdogan.
In questo processo, la normalizzazione totale dei rapporti con Israele, sino all’alleanza formale, è una pietra miliare e obbligata.
Infine, ma non per ultimo, va notato che questo accordo ha come protagonisti due presidenti apparentemente nella curva finale della loro leadership. Al pazzotico e umorale Donald Trump, in radicale caduta nei sondaggi per la rielezione, va infatti riconosciuta la lungimiranza nel perseguire, tramite il genero Jared Kushner, ebreo, un Piano di Pace di cui l’accordo tra Israele e Emirati Arabi Uniti è la prima, clamorosa, positiva, realizzazione concreta.
A un Benjamin Netanyhau alla guida di una coalizione che non riesce neanche ad accordarsi sul bilancio e che è ferocemente contestato nelle piazze israeliane e fin sotto casa sua, va riconosciuta la malleabilità nel sospendere – ma gli Emirati Arabi Uniti sostengono che abbia rinunciato definitivamente – quella annessione a Israele della valle del Giordano che pure pareva un suo obbiettivo primario e immediato.
Nuova fase in tutto il Medio Oriente, dunque. Dagli esiti imprevedibili.