EspiazioneI quattro peccati capitali dell’Italia del Covid

La pandemia ha fatto emergere in modo esplosivo le debolezze antropologico-culturali del nostro Paese: oppressivismo, negazionismo, riduzionismo e colpevolismo. Ogni problema diventa un “tutti contro tutti” e un intollerabile scaricabarile tra enti e istituzioni

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Nell’emergenza Covid l’Italia sconta quattro debolezze antropologico-culturali (espressione un po’ razzista, ma – temo – pertinente), che la pandemia ha fatto emergere in modo esplosivo, ma che costituiscono un fattore di rischio preesistente e permanente per la gestione di qualunque crisi politica. 

La prima debolezza è un’idea puramente oppressivistica del controllo sociale, con una perenne oscillazione tra la minaccia della galera come solo incentivo alla “correttezza” e all’adempimento delle prescrizioni e l’identificazione di ogni forma di disciplina e di auto-disciplina collettiva con una limitazione insopportabile della libertà individuale. 

Così abbiamo fenomeni paradossali, come quelli della destra sovranista: a marzo – con i suoi governatori in difficoltà nelle regioni del Nord – ha chiesto e ottenuto una inutile segregazione domiciliare di sessanta milioni di italiani e ha descritto ogni runner solitario e ogni vecchietto a passeggio con il cane come un possibile e riprovevole untore; oggi la stessa destra, le stesse persone, lo stesso coté politico-mediatico denuncia la chiusura delle discoteche o il possibile uso delle mascherine a scuola come una prova generale del colpo di Stato prossimo venturo, dopo avere sposato un negazionismo clinico che il caso Briatore ha clamorosamente contraddetto, ma non depotenziato della sua forza pervasiva, di fatto insensibile a smentite razionali.

La seconda debolezza è proprio il negazionismo, cioè il ridimensionamento falsificante della natura problematica di un’emergenza, che non si ha la forza di rimuovere – cioè di cancellare dalla coscienza collettiva – ma che ci si sforza di relativizzare negli effetti molto oltre la portata di un ottimismo razionale. Il temporaneo azzeramento dei ricoveri in terapia intensiva ha portato anche molti scienziati rispettabili e una folla di politici zelanti a presentare il Covid come qualcosa che avevamo alle spalle, non come qualcosa che abbiamo tuttora davanti e della cui evoluzione non siamo in grado di prevedere quasi nulla. 

Il negazionismo, da questo punto di vista, è un atteggiamento uguale e contrario a quello – caratteristico delle forze di governo – che vorrebbe da un punto di vista generale fermare l’Italia in un eterno lockdown psico-politico e giustificare un emergenzialismo permanente in nome di un a emergenza intermittente o, per meglio dire, eventuale.

Il risultato è che per un pezzo del nostro sistema politico il Covid non c’è più – invece c’è ancora – e per un’altra parte esige invece grosso modo le stesse politiche di marzo e aprile – in nome di un ‘emergenza che al momento non c’è più e che non sappiamo se, quando e come si ripresenterà. Si tratta di due atteggiamenti opportunistici, ideologicamente molto più simili di quanto si possa pensare.

La terza debolezza è il riduzionismo manicheo, che porta a rappresentare la questione Covid come un problema solo o prioritariamente sanitario e a subordinare scelte complesse di politica pubblica a una sorta di “buonsensismo” salutista. I casi delle scuole o dei trasporti pubblici sono i più esemplari e paradigmatici, ma non sono i soli a dimostrare che la gran parte delle attività economiche, sociali e civili “di prima” non sono in generale compatibili, se non in forma quantitativamente ridotta, con le regole di Covid compliance e non esistono le risorse disponibili per adeguarle. Quindi la politica ha dinanzi a sé dilemmi che non hanno solo a che fare solo con questioni di salute pubblica e non possono certo risolversi con l’appello al “prima la salute”. 

Questo non significa affatto negare la preminenza politico-costituzionale del diritto alla salute, ma riconoscere che si tratta di uno – e non del solo – diritto primario che le costituzioni liberali riservano ai cittadini (cioè alla loro libera iniziativa) e che di per sé non giustifica in assoluto la restrizione o la cancellazione di altri diritti fondamentali, se non dopo una ponderazione di interessi, di costi e di benefici giustificati in concreto (per essere chiari: tenere a casa 9 milioni di studenti per salvare “anche una sola vita”, come reciterebbe la retorica salutista non è né razionale, né politicamente obbligato).

La quarta debolezza è l’incapacità di governare problemi complessi evitando di equiparare ogni problema a una colpa morale, ogni “male” a un reato, ogni disgrazia, prevedibile e magari inevitabile, a un attentato alla salute pubblica di cui qualcuno (a caso) deve rispondere. A questo paranoico colpevolismo trasversale mi pare appartengano le polemiche sull’aumento dei contagi per l’intensificarsi delle relazioni sociali e per i naturali assembramenti della stagione turistica.

Ogni problema diventa un “tutti contro tutti” e un intollerabile scaricabarile tra enti e istituzioni. Esemplare il caso della Sardegna che nel giro di poche settimane è passata dal banco degli accusatori a quello degli imputati e della colpevolizzazione grottesca di milioni di vacanzieri, come dei vergognosissimi viziosi, che per essere andati una settimana in Sardegna o in Grecia meriterebbero il patibolo (dove troverebbero un boia che sicuramente ha fatto vacanze molto più cool ed esclusive e meno “assembrate”). 

Insomma, un Paese in cui vaste maggioranze di cittadini e non solo di politici sono refrattari alla cooperazione sociale e indisponibili ad accettare la complessità dei problemi, ma pensano di dovere essere poliziotti degli altri e giudici di tutti, in nome ovviamente della salvezza del popolo, è inadeguato e vulnerabile di fronte a un’emergenza come il Covid, che implica, per definizione, un governo dell’incertezza, che non spetta alle sole istituzioni politiche, ma è una responsabilità sociale diffusa.