Il Covid alleato della gerontocrazia. Questa è l’impressione che trova conferma dagli ultimi dati sull’occupazione dell’Istat. A dispetto del fatto che dal punto di vista sanitario il virus colpisca in modo molto più che proporzionale gli anziani, almeno a livello di effetti clinici, dal lato economico e occupazionale sembra andare molto diversamente.
Il calo dell’occupazione tra gennaio a giugno è stato importante, come previsto, ma certo non omogeneo.
Quella dei lavoratori tra i 15 e i 24 anni è diminuita del 10,5 per cento, mentre quella dei 50-64enni è addirittura cresciuta del 0,6 per cento. Il destino dei 25-34enni pure non appare roseo con un decremento della loro occupazione del 5,8 per cento, che diventa del 3 per cento tra i 35-49enni.
Se poi il confronto è annuale, con il giugno del 2019, i numeri sono ancora più crudi, perché il crollo dell’occupazione dei più giovani diventa del 15 per cento, mentre l’aumento tra i più anziani raggiunge il 0,9 per cento.
Certo, conta anche il fattore demografico, il segmento dei 50enni e dei 60enni, nati durante il baby boom, si ingrossa ogni anno, soprattutto nel mondo del lavoro, complici le riforme che hanno ritardato la pensione, mentre i 20enni sono sempre meno, ma anche escludendo la demografia cambia poco, è del 7,6 per cento la diminuzione dell’occupazione di chi ha tra i 15 e i 34 anni, mentre volge in negativo, ma di pochissimo, del 0,6 per cento, la variazione di quella di chi ne ha tra 50 e 64.
E dire che negli ultimi anni, e soprattutto nel 2019, si era assistito a un recupero per quanto riguarda il numero di occupati più giovani: se nel 2015 rispetto al 2012 questo era crollato di più del 20 per cento, nel giro di un 4 anni era risalito tanto da ridurre il gap e quasi annullarlo, registrando una performance migliore di quella dei 30enni e dei 40enni, che, si era fatto notare a ragione, erano cominciati ad apparire come i veri perdenti della congiuntura economica, troppo giovani per godere della sicurezza appannaggio dei baby-boomer, ma troppo vecchi per essere appetibili alle aziende o per entrare nei vari incentivi all’assunzione dei giovani.
E invece questa crisi sembra mettere le cose “a posto”, e ristabilire tristemente quella gerarchia del disagio occupazionale che da anni vede in testa i più giovani e poi a seguire coloro che hanno qualche anno in più fino ai più anziani, i più sicuri. Anche oggi che la recessione sta eliminando proprio i lavori più precari, quelli autonomi, o legati ai settori più colpiti come ristorazione, commercio, turismo, in cui i giovani sono molti.
Una prima conseguenza è la crescita degli inattivi che aumentano di 229 mila unità tra i 20enni, di 272 mila tra i 25-34enni. In quest’ultimo caso l’aumento percentuale è maggiore, e colpisce in particolare le donne, visto tra i 15-24enni che gli inattivi per motivo di studio sono già moltissimi.
Ma l’effetto complessivo peggiore, a prescindere dal tema dell’equità intergenerazionale, che appare sempre più lontana, appare molto pratico.
Andiamo incontro a un mondo del lavoro fatto di vecchi. Nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole (gli insegnanti italiani sono già i più vecchi del mondo), i progetti e le lavorazioni sono sempre più in mano a persone oltre i 40 e i 50 anni.
E non possiamo ignorare il fatto che la proroga dei licenziamenti sta esacerbando questa situazione: la perdita di posti di lavoro non può che essere molto squilibrata, colpisce solo coloro che hanno un contratto a termine in scadenza o una commessa da autonomo che per la crisi viene a mancare. E si tratta quasi solo di giovani.
Dall’altro lato il blocco impedisce di fatto le nuove assunzioni a tempo indeterminato, già ai minimi per la recessione. Non c’è incentivo se poi è impossibile licenziare. E chi sono coloro che di solito sono i beneficiari delle assunzioni se non i più giovani.
Che oggi si trovano la strada sbarrata in entrata, con gli outsider ancora più fuori di prima, mentre le porte verso l’uscita per i tanti senza contratto permanente sono aperte più che mai. Non c’è più un flusso con lavoratori che entrano ed escono dal mondo del lavoro ma solo un’emorragia.
Il risultato per ora è che gli occupati tra 15 e 24 anni sono solo il 4,3 per cento, erano il 4,9 per cento un anno fa e il 7,9 nel 2004.
Ancora più marcato il calo della proporzione dei 25-34enni, passati in 16 anni dal 27,5 al 17,4 per cento. In sostanza 20enni e 30enni erano il il 35,6 per cento, e oggi sono poco più di un quinto dei lavoratori.
Mentre gli ultra-cinquantenni in un solo anno sono avanzati dal 35,4 al 36,4 per cento, accelerando un trend di lunghissimo periodo, se consideriamo che nel 2004 erano solo il 20,3 per cento.
Se allora vi erano 7 giovani ogni 4 over-50, oggi è esattamente il contrario, le parti si sono invertite.
Vogliamo veramente che il mondo del lavoro diventi appannaggio solo di 50enni e 60enni? Con i giovani ridotti a qualche riserva indiana in alcuni settori, eterni stagisti? Che la ripresa del Paese, che necessita innovazione e cervelli freschi e flessibili, sia possibile escludendo i 20enni, rendendo difficile la loro assunzione?
Per qualcuno la risposta è mandare prima i più anziani in pensione. Come se ce lo potessimo permettere. La realtà è un’altra, che abbiamo bisogno di aprire le porte delle aziende, degli uffici, delle fabbriche, ai più giovani.