Ieri notte, mentre lo zoccolo duro dei sostenitori di Barack Obama e delle fans di Kamala Harris dormiva (sono in maggioranza europei), alla convention democratica virtuale sfilava una classe dirigente non da buttare. Una testa d’uovo con un progetto di riforma per tutto (Elizabeth Warren), una speaker della Camera assai abile (Nancy Pelosi, che è una politica all’italiana ma fosse vissuta in Italia sarebbe diventata al massimo Sandra Mastella), una candidata vicepresidente con esperienza e competenza ad alto livello e una storia personale bellissima (Kamala Harris), e un ex presidente molto fico che un tempo veniva detto No Drama Obama.
Che ha parlato con una faccia e un tono che neanche Walter Rathenau, o altri notabili all’alba del nazismo. Obama ha fatto presente che la democrazia è a rischio. Che Donald Trump è un pericoloso mentecatto. Che bisogna andare a votare, a tutti i costi, magari elaborando un piano perché in certi stati faranno di tutto perché certi gruppi non votino. Che l’America va salvata, che bisogna agire subito. Trump si è messo a twittare in stampatello, chiaro segno di disagio.
Il presidente ha poi twittato in stampatello contro Kamala Harris. Emozionata e svantaggiata, ha parlato dopo il secondo oratore più bravo della famiglia Obama. In più, l’oratore aveva appena chiamato, cupamente, alla guerra di liberazione. E l’introduzione affettuosa della bella famiglia Harris-Emhoff (sorella-nipote-figliastra, la più scema laureata ad Harvard La) è risultata strana, sembrava uscita da una sceneggiatura precedente. Come il discorso della candidata.
Formidabile ma emozionantissima, Harris ha fatto un discorso da convention, di quelli che non scontentano ma non infiammano. Poche buone battute: «per il razzismo non c’è vaccino», «ho fatto il procuratore distrettuale e so riconoscere un predatore», e ovviamente è Trump. Molte vaghezze. Una chiusura disastrosa, con il marito Doug e i Biden su un palchetto affacciato su quattro gatti, una musichetta, e nessuno che sapeva cosa fare, non ci si può abbracciare, Doug è imbarazzato, Jill Biden odia Harris ed è salita vestita di nero che alle convention non usa.
È stata, a tirare le somme, una serata interessante e preoccupante. Il partito democratico ha mostrato i suoi esponenti presentabili. Si è visto quanto – alcuni – sono competenti, quanto siano un’élite, quanto questa élite sia ormai di molti colori, anzi, almeno per metà di colore, quanto questo scateni trumpiani e razzisti vari sulle piattaforme digitali. Quanto sia difficile vendere ottimismo e vicende personali che ispirino quando lo stesso ex presidente è arrabbiato e impaurito. E quanto si vorrebbe, piuttoste, essere in una serie di Shonda Rhimes.
A presentare la terza serata della convention c’era Kerry Washington. Insomma, c’era Olivia Pope di Scandal, la donna che risolve le peggiori beghe presidenziali e di sicurezza nazionale in tv; che avrebbe fatto prelevare Trump dai suoi collaboratori e poi chissà. Ma basta sognare, stanotte c’è Joe Biden (e vari altri, anche Michael Bloomberg che altrimenti avrebbe smesso di finanziare la campagna dei democratici, dicono).