Propaganda senza limitiDopo 2500 anni le emozioni in politica sono ancora tutto

La pubblicità commerciale ha alcune regole interne e rispetta una sorta di codice etico. Quella dei partiti no: vale tutto, sia l’inganno che le false promesse. E il popolo non educato a smascherare i trucchi della retorica finisce per ottenere cattivi governanti

TOLGA AKMEN / AFP

Nella Grecia classica sorge l’idea che esiste un sistema (la retorica) per rendere persuasive le argomentazioni (la logica), idea che poi evolve quando si scopre l’importanza delle emozioni, idea che, infine, matura con il sospetto (dei sofisti) che la verità coincida con l’affermazione più convincente. Questi i filoni che generano la propaganda.

Abbiamo la propaganda commerciale e quella politica.

La pubblicità è, gira gira, una filiazione della propaganda. Essa sorge di recente – nemmeno un paio di secoli – perché la produzione di massa deve essere venduta. La pubblicità è più sottile di quanto non sembri.

Nel 1916 l’Europa è un lago di sangue. Quell’anno a Detroit si svolge il primo congresso annuale dei viaggiatori di commercio.

Davanti alla platea il Presidente Woodrow Wilson sostiene che il conflitto che divide il mondo non dipende dalle contrapposizione delle ideologie, ma dagli stili di vita. I benestanti trovano disgustosi i poveri, che a loro volta sono segnati dal risentimento verso i ricchi. La distanza sociale alimenta l’incomprensione e il conflitto. Se però i poveri potessero vestirsi, lavarsi, mangiare, svagarsi, i conflitti di stempererebbero fino a scomparire.

Da qui il ruolo dei viaggiatori di commercio che vanno in giro a diffondere i valori del consumo che si oppone al conflitto sociale. Insomma, gli stili di vita che si somigliano portano la pace nel mondo con i viaggiatori di commercio che ne sono i missionari. E la pubblicità che è la propaganda della nuova fede.

Nella pubblicità commerciale non tutto è lecito. Il camuffamento è vietato se induce in errore il destinatario, pregiudicandone il comportamento. La promessa di investimenti con risultati mirabolanti è vietata. Vi sono dei limiti alla pubblicità negativa, ossia al mettere in cattiva luce un prodotto concorrente.

Nella pubblicità politica tutto, al contrario, è lecito. Il camuffamento, ossia l’alterare i termini delle questioni per indurre dei comportamenti distorti è all’ordine del giorno, la promessa di risultati mirabolanti è prassi condivisa, il mettere in pessima luce l’avversario altrettanto.

Nella pubblicità commerciale si cerca di impedire che il differente livello di informazione (l’aimmetria informativa) fra il produttore e il consumatore danneggi il secondo, mentre nella pubblicità politica sembra che non ci siano freni di sorta.

Potrebbero esserci dei freni che non sorgono dal legislatore, ma che emergono dal mercato, come il fact checking, come l’intervistatore che chiede al politico lumi su quanto afferma, e via andando. Per ora in Italia siamo in questo campo allo stato embrionale.

Così come molti sottoscrittori delle obbligazioni subordinate emesse dalle banche di credito ordinario qualche anno fa non dedicavano del tempo per capire di che cosa si trattava, mentre ne dedicavano ben di più – e per cifre in confronto ridicolmente inferiori – per acquistare un banale elettrodomestico, l’elettore dedica poco tempo per capire la posta in gioco. O meglio, la giudica senza approfondimento.

Da qui la conferma dell’idea degli antichi greci intorno all’importanza delle emozioni, e dell’idea che la verità, alla fine, coincida con l’affermazione più convincente.

I sospetti degli antichi greci sono condivisi dai politici moderni, spinti a comportarsi in questo modo. Allo stesso tempo, anche i politici recalcitranti, quelli che non vogliono seguire questo comportamento, debbono abbracciarlo: pena l’espulsione dal mercato del voto.

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