Candidati cercasi disperatamente. A destra e a sinistra. È incredibile ma sembra che fare il sindaco di Roma faccia schifo a tutti. E non tanto per il rischio di perdere (Virginia Raggi è debolissima, per i romani è un simbolo negativo) ma per il motivo opposto, il rischio di vincere.
Lei, la sindaca, non ha niente da perdere e dunque ci prova; mentre i presunti sfidanti nicchiano, rinviano, non rispondono. E certo: vallo a trovare un politico/a che per 5000 euro al mese si prende una delle gatte da pelare più rognose della storia, governare quell’enorme casino che è l’amministrazione capitolina, nella selva di interessi opachi e compiacenze inesorabili, fra le mani il volante dissestato della macchina di governo, in un panorama che alterna le millenarie bellezze alle quotidiane schifezze, il tutto nel vuoto totale di una politica degna di questo nome e con il fiato di milioni di romani avvelenati con l’universo mondo. E ora pure i soldi sono pochi, maledetto Covid che a Roma fa strage di tavolini e turisti, i tassisti escono col coltello fra i denti alla ricerca di un cliente qualsiasi, meglio una corsa breve che niente.
I poveri aumentano. Il caos pure. La cultura è un ricordo, malgrado l’impegno degli artisti: tanti, a Roma.
Chi lo farebbe, in queste condizioni, il sindaco? Il ruolo si addice a Giorgia Meloni, espressione selvatica della profonda destra romana, ma lei scappa perché com’è noto ha ben altre ambizioni, specie in fase di salvinismo calante, salvinismo che fra parentesi a Roma non ha prodotto niente, salvo quel Durigon a cui è stata promessa la regione Lazio.
C’è allora Fabio Rampelli, altro nipotino della destra missina dei tempi d’oro: forse accetterà, lui che pure da vicepresidente della Camera prende altro che 5000 euro. Vedremo se presterà la sua postura da nuotatore e palestrato alla causa dell’Urbe. Di Maurizio Gasparri neanche a parlarne. Magari spunta un riccone, un rampollo del vecchio generone romano un po’ fascista e ovviamente molto devoto a Santa Romana Chiesa.
A sinistra, o centrosinistra che dir si voglia, la scena per il momento vede tutti marcare visita. Europarlamentari, ministri, sottosegretari: chi rinuncia a scranni dorati per andare a lavorare 12 ore al giorno e magari spesso e volentieri per occuparsi di mercati rionali, buche di strada, fontanelle senz’acqua, cornicioni a rischio? Si frullano nomi sui giornali, David Sassoli, Enrico Letta (figuriamoci, già ha detto no, con molte ragioni), Monica Cirinnà, Roberto Morassut, oppure nomi più “locali”, si parla del giovane Valerio Carocci, animatore della bella battaglia del cinema America: ma forse è solo un diversivo inventato al Nazareno tanto per dire qualcosa.
Il Partito democratico nazionale non si muove. Il timing scatterà dopo le Regionali ma forse la mossa di Virginia imporrà un’accelerazione, intanto per avviare un minimo di scouting nel partito e fuori, e poi per mettere in piedi un’alleanza in grado di distruggere la Raggi al primo turno con tanti saluti alla AS (Alleanza strategica) teorizzata da Dario Franceschini (la cui moglie, Michela De Biase, è peraltro in lizza per guidare l’era post-Raggi).
Il partito a Roma esiste e non esiste. Non si è mai ripreso dalla epopea all’incontrario di Ignazio Marino e dalle relative guerre puniche che si accesero intorno a lui, né tantomeno dall’umiliazione di consegnare la Capitale d’Italia a una ragazza mai sentita o quasi che voleva la funivia a Casalotti, estrema periferia nord.
Ci sono nuclei di militanti qua e là, circoli del Pd sparsi casualmente. I gruppi dirigenti – usiamo un’espressione enfatica – organizzeranno le primarie, dicono. Il problema è chi correrà per vincerle.