La prima stagione era lo sgretolamento. La seconda (più noiosa) l’abisso. E la terza, alla fine, l’espiazione. Il trittico di “Baby”, la serie tv italiana ispirata allo scandalo delle baby prostitute dei Parioli del 2013 e realizzata per Netflix, arriva alla conclusione. Con un processo, come è avvenuto nella realtà, e le sue sentenze.
Ma il procedimento giudiziario diventa con facilità metafora narrativa e così le domande degli inquirenti e degli psicologi scandiscono il cammino interiore (accidentato, come è ovvio) dei personaggi, che ripensano al passato, giudicano gli errori, si assumono e distribuiscono responsabilità.
Dal punto di vista narrativo, pochi sviluppi: viene ri-raccontato ciò che lo spettatore, guardando le due stagioni precedenti, sapeva già. Ognuno fa i conti con se stesso: «Quell’apatia – spiega Chiara, interpretata da Benedetta Porcaroli, nel monologo dell’ultimo episodio – mi faceva sentire adulta. Mi sembrava la soluzione a tutto. I sentimenti sono solo illusioni, mentre i soldi sono veri. Non voglio più vivere così».
In una stagione segnata da un progressivo (e anche questo accidentato) disvelamento, la serie cerca di sondare psicologie e trovare messaggi universali, trasfigurando il famoso caso di cronaca del 2013 da cui ha tratto ispirazione nell’affresco di una società disastrata, dove l’essere benestanti non rappresenta né una salvezza né una colpa. «Mi sembra giusto ammettere che ognuno di noi ha responsabilità», conclude Chiara.
La parola d’ordine di “Baby 3” è allora “maturità”. È quella scolastica, anche se rimane sullo sfondo: i protagonisti sono all’ultimo anno del (fantomatico) liceo Collodi, scuola modello della Roma bene. L’esame diventa, almeno per una delle protagoniste, Ludovica (Alice Pagani) una sorta di appiglio per un ritorno alla normalità.
Ma si intende anche la maturità, spirituale e morale, che i personaggi devono raggiungere di fronte al «casino» che è stato combinato, allo «scandalo» che è saltato fuori e «la vergogna» che li ha travolti.
Non tutti ci riescono. In questo groviglio di bassezze e meschinità chi fa la fine peggiore, come si intuiva dalla prima serie, sono proprio i genitori: basti pensare che nella galleria degli orrori di “Baby” c’è quello che va con le prostitute minorenni, quella che sfrutta la figlia per soldi, quella che cerca di salvare la dignità affogando gli altri. Difficile voler diventare grandi, se i grandi sono fatti così.
All’insipienza degli adulti, rimarcata del resto da recitazioni pessime, si contrappone la forza della legge: polizia e magistratura sembrano gli unici a volersi occupare di quello che accade ai ragazzi. Il loro è un piccolo mondo moderno allo sbando. C’è lo spaccio (considerato comune) e la prostituzione (che non lo è), con i classici episodi di crudeltà, cattiverie, ricatti e – anche qui – bassezze e meschinità. Le storie d’amore, che non mancano, scolorano di fronte a problemi ben più grandi.
È una generazione maleducata, in tutti i sensi. Lo si ribadisce con la canzone omonima di Achille Lauro, che compare in un momento chiave della storia. Educata male, cresciuta male, ispirata male.
Nella vita, insomma, i ragazzi restano soli. O meglio, sono accompagnati soltanto dalla musica, il tappeto sonoro creato da Yakamoto Kotzuga (il veneziano Giacomo Mazzuccato) forse la cosa più bella della serie (insieme alle prove recitative delle protagoniste). È la melodia che si dipana nella cupezza dell’atmosfera, rischiarata solo dagli echi lontani di qualche arco.
Un sottofondo elettronico, che partendo da Coez (prima stagione) finisce per mescolare canzoni di Nahaze (come “Freak” e “Control”) e Billy Eilish, e introduce le malinconie sofisticate di Makai, lo showgaze dei Daughter, il pop di Ry X, gli Altarboy, la dance elettronica di Photay, i BowLand. Un paesaggio musicale dove gli adulti sono fuori luogo e gli adolescenti abbandonati a se stessi. “Non avere paura” dei Thegiornalisti (c’era anche questo nella prima stagione) è un titolo eloquente.
Quella musica parla solo di loro. Si può solo restare ad ascoltarla, mentre cercano la strada per uscire dal casino, dallo scandalo e dalla vergogna.