L’immagine di un uomo che corre. Una corsa estenuante, frenetica, sgrammaticata ma elegante. La fatica di correre sulla poco educata superficie del bagnasciuga.
Lunghe ed eleganti leve, sottilissime gambe e corti pantaloncini, calzettoni bianchi di spugna. Una mise che oggi definiremmo impunemente retrò.
Era pur sempre il 1982 quando venne girato il videoclip di “Orbetello Ali e Nomi”, canzone tratta dal secondo disco di Flavio Giurato, “Il Tuffatore”. Ed è lui quel longilineo corridore, bello e scomposto. È sua quella corsa furiosa, mentre con la stessa intensità si affannano e si rincorrono il piano e le percussioni. È lui che corre a perdifiato, senza apparente destinazione. Fino allo schianto. Fino alla rovinosa caduta al suolo. Corpo e capelli nell’acqua.
Nemmeno il tempo di concedersi alla caduta che si è di nuovo in piedi, capelli al vento. Prima di cadere ancora, e ancora. E ancora rialzarsi. Fino allo stacco finale in controluce, esile sagoma nera, luminoso orizzonte sullo sfondo.
Quella di Giurato è una corsa durata dal 1978 al 1984. È tutta racchiusa fra il primo salto, la prima caduta, non nella sabbia ma nel vuoto, che apre il primo LP “Per Futili Motivi”, e quel calmo attendere, sguardo all’orizzonte, di “Marco Polo” che chiude il terzo album. Un salto vertiginoso che innesca una forsennata corsa. E poi l’attesa, quella di chi non si è fermato mai per milioni di chilometri.
Non c’è immagine che possa racchiudere meglio di questa corsa, sgrammaticata ma elegante, sempre ostinata, la vicenda umana e artistica di Flavio Giurato.
Una corsa che è sprigionamento di energie compresse, rappresentazione di violenta necessità espressiva, meccanismo di deflagrazione emotiva, inappagabile ricerca di libertà, necessità di non arrendersi ai propri limiti ma al contrario di superarli, esibizione della propria bellezza. Una bellezza consapevole e a tratti compiaciuta e che, a inizio videoclip, è scolpita nel volto di Giurato, nei suoi lineamenti arcigni, nel suo sguardo penetrante.
Dai suoi occhi, sovrastati dai pesanti tratti delle sopracciglia, traspare il carisma e la tenacia, assieme ad un’aria di sfida e di ribellione velate solamente da un lieve sentimento di mestizia.
Un alto atleta, lunghe ed eleganti leve, sottilissime gambe e corti pantaloncini, calzettoni bianchi di spugna. Racchetta di legno. È sempre lo stesso videoclip e il tennista è ancora una volta Giurato. Egli attende con concentrazione l’ostinato ripresentarsi della pallina. Il volto, incorniciato da una folta capigliatura nera, scandisce ogni colpo con una smorfia di dolore. Le inquadrature indugiano sui muscoli contratti delle gambe.
Ad ogni impatto con la palla il corpo si stacca dal suolo librandosi nell’aria in plastici movimenti, la cui eleganza è sottolineata dallo scorrere a rallentatore dell’azione. Ogni colpo, a cui corrisponde una frustata di chitarra elettrica, è un’esplosione di bellezza, fatica ed ostinazione.
Un match che viene disputato contro un fato nefasto, questo alto muro su cui si infrangono i violenti colpi, rispediti poi al mittente. Un muro contro cui si infrange ogni velleità di trionfo, ogni tentativo di superamento. Una lotta ingaggiata contro il destino ma soprattutto contro sé stessi: poche speranze di vittoria in ogni caso.
Una partita condotta in un perenne stato di esaltazione in cui il più alto e intenso piacere coincide con la percezione di una sconfitta sicura. Una partita che finisce per consumare l’atleta e l’uomo.
Lunghe ed eleganti leve, sottilissime gambe di un tuffatore che dinnanzi ad un impassibile orizzonte, restò ad aspettare per quasi vent’anni e che seppe poi rinascere dall’acqua all’aria, in nuove e inedite sembianze.
da “Flavio Giurato – Le gocce di sudore più duro”, di Giuliano Ciao, Crac Edizioni, 2020