Il Parlamento europeo non si riunirà a Strasburgo nel mese di settembre. Il “circo itinerante”, come da definizione più comune fra chi lavora nelle istituzioni dell’UE, è stato fermato ancora una volta dalla crisi sanitaria legata alla diffusione del Covid19. E anche se si tratta di un semplice arrivederci alla città alsaziana, la questione può ridare fiato al partito trasversale che vede il trasferimento mensile in Francia come un’inutile e costosa formalità.
A sei mesi di distanza dall’ultima volta, i parlamentari dovevano tornare a Strasburgo nella settimana del 14 settembre. Ma dopo giorni di discussioni interne e pressioni sotterranee, il Presidente David Sassoli ha dichiarato che la sessione si svolgerà a Bruxelles. «La ripresa della pandemia in molti Stati membri e la decisione di classificare l’intero dipartimento del Basso Reno in zona rossa ci obbligano a riconsiderare lo spostamento. Siamo molto amareggiati per questa decisione, ma il trasferimento imporrebbe a tutto lo staff, al suo ritorno a Bruxelles, la quarantena». La città alsaziana era diventata zona rossa lo scorso 3 settembre, dopo che per una settimana si era registrato un tasso medio di 55,8 casi di Covid19 ogni 100mila abitanti. Ma questo non aveva automaticamente comportato il cambio di sede, né aveva scoraggiato i sostenitori a oltranza della necessità di fare i bagagli.
Una lunga battaglia
Il Protocollo numero 6 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) stabilisce che il Parlamento europeo ha la sua sede a Strasburgo, dove devono svolgersi 12 sessioni plenarie mensili. Lo stesso Protocollo prescrive che a Bruxelles si tengano invece i lavori delle commissioni Parlamentari e le tornate plenarie aggiuntive, cioè quelle non preventivate nel calendario annuale. Questa discrepanza impone ogni mese lo spostamento di oltre 3mila persone, fra europarlamentari, assistenti e funzionari dell’istituzione. La sede di Bruxelles, data anche la vicinanza a Consiglio e Commissione, è diventata di fatto il quartier generale di tutti i deputati; quella di Strasburgo un magnifico edificio di vetro, metallo e legno che resta sostanzialmente vuoto per tre settimane al mese.
Il funzionamento della doppia sede comporta non pochi malumori fra molti di coloro che ogni mese cambiano città per svolgere esattamente le stesse attività: lavorare in ufficio e incontrarsi nei corridoi. Lo stesso si può dire per i membri del Parlamento, che semplicemente si riuniscono in un emiciclo più grande e imponente. Anche l’edificio della capitale belga, infatti, dispone di una camera plenaria che assolve le stesse funzioni: qui si celebrano le plenarie supplementari e si sono svolte tutte quelle ordinarie da marzo a luglio, nel periodo del lockdown.
La spesa che i contribuenti europei sostengono per finanziare lo spostamento, poi, non è irrisoria. L’ultimo report disponibile sull’argomento, elaborato dalla Corte dei Conti Europea nel 2014, stima un risparmio di 114 milioni di euro all’anno nel caso in cui tutte le attività parlamentari vengano trasferite a Bruxelles, a cui andrebbero aggiunti più di 600 milioni una tantum derivanti dalla vendita dei (molti) edifici che l’istituzione detiene a Strasburgo. Spendere circa il 6% del bilancio annuale del Parlamento soltanto per cambiare aria non è certo una buona pubblicità per gli eurodeputati e si trasforma in un’arma affilata nelle mani degli euro-critici: i vertici del Movimento 5 Stelle, ad esempio, non andarono troppo per il sottile, definendo nel gennaio 2019 la sede di Strasburgo «una marchetta per la Francia». Non ultima in ordine di importanza, c’è la preoccupazione per i risvolti ambientali della spola mensile tra Francia e Belgio, con il suo carico non indifferente di emissioni, che imbarazzano un emiciclo sempre più attento alla questione del riscaldamento globale.
La fronda anti-Strasburgo
La pratica della doppia sede, adottata ufficialmente nel 1992 e risalente a una consuetudine dei primi anni dell’Unione, è per molti totalmente anacronistica. Ma non può essere rivista se non con l’unanimità degli Stati che compongono l’Unione Europea e la ratifica di ciascuno dei parlamenti nazionali. È difficile immaginare che la Francia possa rinunciare all’indotto di un trasferimento di massa a cadenza mensile in una delle sue principali città. Così come il Lussemburgo, che vede ogni 30 giorni centinaia di funzionari transitare sul suo territorio e acquistare carburante e merci a prezzo ribassato.
A livello politico, però, il fastidio cresce nell’Europarlamento: nel 2019 il deputato tedesco Nico Semsrott ha presentato una petizione per chiedere di eliminare la sede di Strasburgo e anche il confronto di questi giorni fra le varie anime dell’emiciclo riflette una questione irrisolta.
Per una volta le divisioni non sono politiche, ma nazionali, come dimostrano le reazioni alla decisione di Sassoli: approvazione sia da destra che da sinistra e malcontento fra i deputati francesi, senza distinzione di casacca. Alcuni, come il liberale Cristophe Gluder hanno pubblicamente criticato la scelta, rimarcando come anche la città di Bruxelles si trovi oggi in una zona rossa. Altri, come i verdi francesi di Europe Écologie, sono rimasti silenti, forse perché devono mantenere un equilibrio fra la linea del loro gruppo europeo e la necessità di non pestare i piedi a una compagna, Jeanne Barseghian, sindaco di Strasburgo e perciò diretta interessata nella questione.
In mezzo al dibattito c’è il Presidente del Parlamento, che per ruolo e mandato deve onorare l’obbligo sancito dai Trattati e infatti ha puntualizzato come «il desiderio del Parlamento europeo sia di tornare a Strasburgo» non appena possibile. Tuttavia, al momento non è possibile fissare una data certa, né è stata pensata una soluzione per “recuperare” le plenarie che non si sono celebrate nella città francese, come spiegato a Linkiesta da fonti istituzionali dell’emiciclo.
Nel frattempo, la rinuncia forzata al “circo itinerante” potrebbe diventare la dimostrazione del fatto che la sede di Strasburgo non sia fondamentale, come già suggeriscono alcuni deputati. Già lo scorso gennaio, del resto, la risoluzione con cui il Parlamento benediva il Green New Deal europeo chiedeva anche “urgentemente” agli Stati Membri di accordarsi per scegliere una sola sede e fermare così quella che per molti è una carovana insostenibile. Ma, come spesso accade nel linguaggio parlamentare, il diavolo è nei dettagli. «Una singola sede non significa automaticamente la sede di Bruxelles», fa notare un’esperta funzionaria francese del Parlamento. E c’è da scommettere che i suoi connazionali non rinunceranno facilmente alla loro gita mensile.