Furono ben poche le forze e personalità politiche, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, a denunciare che la droga del debito pubblico – vera eredità strutturale della stagione dell’unità nazionale – nel giro di pochi decenni avrebbe intossicato l’Italia. Gli italiani diedero loro democraticamente torto, plebiscitando il partito unico della spesa pubblica, del deficit a due cifre, dei miracoli di oggi con i soldi di domani.
Stessa sorte toccò anche a quanti, più o meno nello stesso periodo, denunciarono che una giustizia concepita come una continuazione con altri mezzi della guerra contro mali collettivi esecrati – la mafia, il terrorismo, più tardi la corruzione – e un uso combattentistico delle indagini penali avrebbe imbastardito il potere giurisdizionale, trasformandolo in un superpotere eversivo, una sorta di Consiglio dei Guardiani della Repubblica.
I teorici della “giustizia assoluta”, quindi anche, se serve, indipendente e contraria alle regole dello stato di diritto, ebbero comunque sempre robuste maggioranze, assistite da un partito della forca trasversale, persuaso che la giustizia dovesse andare per le spicce, altro che le fisime cripto-mafiose dei garantisti.
In tempi più recenti, nella stagione dell’euro, quando la macchina della crescita drogata dal debito e dalle svalutazioni competitive fu privata degli “aiutini” su cui aveva contato, una volta terminata l’età aurea del boom, ci fu pur qualcuno a lanciare l’allarme sulla necessità di riforme strutturali per incentivare un vitalismo economico declinante.
Ma la gran parte della politica, benedetta dal voto degli elettori, preferì continuare come se non fosse cambiato niente, mentre era cambiato tutto, e l’Italia si incamminò nel suo ventennio perduto di Pil immobile e investimenti in fuga, culminato prevedibilmente nell’ordalia populo-sovranista dell’antipolitica militante.
Il 20 e il 21 settembre è andato in scena più o meno lo stesso spettacolo, che ha intrappolato nel medesimo impasse minoranze apparentemente costrette all’alternativa obbligata tra la sdegnosa afflizione per gli “errori” degli elettori o il rituale mea culpa per i propri.
Gli italiani hanno creduto in grande maggioranza alla panzana della democrazia no-cost e del taglio moralizzatore, alle magnifiche sorti e progressive della sinistra apulo-campana della premiata ditta De Luca & Emiliano e alla portentosa grandezza del Doge Zaia, nuovo signore e padrone del sovranismo nordista.
E allora? Bisogna dare degli stronzi agli elettori – ché ben gli sta, così imparano – o bisogna darsi degli stronzi per non essersi intruppati nella compagnia vincente e per essersi opposti allo spirito del tempo, continuando a predicare una alternativa che pochi si filano e i più irridono?
Non bisogna fare né l’una né l’altra cosa, ma dare prova semmai di credere alla politica e alle sue possibilità, come nella campagna elettorale proprio il fronte del No aveva invitato gli elettori a fare, in gran parte galvanizzati dalla sfiducia verso la politica sporca e dalla credulità verso gli auto-dichiarati “igienizzatori” delle istituzioni.
Credere nella politica che per essere arte di governo democratica deve essere anche teatro di persuasioni o di inganni; credere nella politica come forza “erotica” di amori e disamori, che la vita pubblica della società e delle istituzioni impasta nei sentimenti e nei pensieri privati di tutti e di ciascuno; credere nella politica come identificazione e non solo come giudizio, come appartenenza e non solo come pratica sperimentale di teorie confermate o smentite dai fatti.
Nell’epoca dominata dalle passioni tristi – della paura, dell’invidia, dalla malevolenza – che come tutte le passioni umane possono convertirsi nel proprio contrario o incistarsi nell’ossessione, la sfida dei riformisti e di quel “transpartito” del 30 per cento per il No al referendum si gioca essenzialmente su questo piano. Se la ragione, la libertà, la responsabilità e il sapere non tornano a essere passioni collettive, esigerne il rispetto continuerà ad apparire un richiamo moralistico.
Nessuno si fa piacere niente, se non se ne appassiona, se non ne riconosce l’importanza e pure la bellezza e una necessità, che ha il senso del dovere e non dell’obbligo.
Pensiamo all’esproprio generazionale realizzato con politiche della spesa che concentrano i benefici sulle classi di età più avanzate. Davvero si può pensare di convincere del contrario quella grande maggioranza di italiani per cui quota 100 sarebbe una conquista di civiltà, se non persuadendoli – mi verrebbe da dire: sentimentalmente – che l’equità generazionale non è un vincolo di finanza pubblica, ma in primo luogo un vincolo morale identico a quello che lega padri e figli? La pedagogia civile è anche un’opera di rieducazione sentimentale.
Per quanto siano forti le ragioni culturali, economiche e sociali che hanno determinato il declino italiano, perfettamente rispecchiato nella declinante fiducia degli italiani in se stessi e negli altri, non ha senso fare politica di opposizione se non per ribaltarle e portare a una qualche “effettualità” la vox clamans nel deserto dell’antipolitica.
Limitarsi a lanciare anatemi contro gli stregoni al potere non serve a nulla e neppure funziona, come il mero debunking “analitico” non funziona per correggere credenze sbagliate, ma finisce paradossalmente per confermare e polarizzare pregiudizi fondati su valori opposti a quelli presunti nel debunker. Fare l’elenco degli errori di chi comanda e delle possibili alternative non è politica, ma mero giudizio sulla politica altrui.
Per chi si voglia cimentare in questa impresa, ovviamente il risultato di ieri aggrava le condizioni, ma chiarisce il quadro. Nessuna delle forze politiche della maggioranza demo-populista e dell’opposizione sovranista è oggi servibile a questi fini.
Nessuna delle forze e delle personalità politiche esterne a questo perimetro – inutile fare i nomi, sono pure pochi – è minimamente sufficiente. Per altro, il bipolarismo ricomposto dal voto regionale sarà comunque scombinato da una legge elettorale proporzionale che per il Movimento 5 stelle è diventata a questo punto una necessità esistenziale. Ci sono tre anni per vedere cosa si riesce a combinare.