In un certo senso ha fatto progressi. In fatto di cultura, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è passato da una concezione settecentesca a una ottocentesca. Un secolo in pochi mesi. Finiti i tempi dei «nostri artisti che ci fanno divertire», riflesso dell’epoca dei signori con rispettivi saltimbanchi, ecco che si affaccia una nuova, risorgimentale, visione. La si nota nello scambio, pubblicato sul Corriere della Sera, con il maestro Riccardo Muti.
Al direttore d’orchestra, che aveva fatto un appello «accorato» per evitare la chiusura di teatri e sale da concerto segnalando le difficoltà del settore, il presidente del Consiglio ha risposto con gravità.
Ha ammesso che è stata una decisione difficile, ha ricordato che l’obiettivo primario è recuperare il controllo della curva dei contagi e che la riduzione delle occasioni di socialità è il mezzo principale per farlo. Ed è comprensibile.
Ma proprio qui, proprio tra una confessione di dolore e una richiesta di sacrificio, il presidente del Consiglio si lancia in un saggio della sua ormai nota retorica. Grazie alla esperienza maturata «in questi mesi di grande difficoltà», spiega, ha visto confermato che la cultura «contribuisce a rafforzare l’identità di un intero popolo, agisce come volano per la coesione sociale, creando le basi – al contempo – per un dialogo che attraversa regioni e confini nazionali, aiutando a cogliere, nella propria e nell’altrui leggenda, il comune destino di finitudine dell’essere umano». Manca solo la siepe.
Per il resto c’è tutto: gli accenni risorgimentali al «popolo» (che è «intero», non parziale, per cui sottintende posizioni irredentiste) e alla sua verdiana «identità», insieme al dialogo che supera regioni e nazioni – tenendole separate, sia chiaro. Ma è con la «propria e altrui leggenda», con il «comune destino», con «la finitudine dell’essere umano» che Conte si supera.
Da dove viene tutta questa poesia? Nonostante sembri retorica a buon mercato (e lo è), le parole del presidente del Consiglio hanno un senso: musica, teatro e cinema, cioè l’arte in senso generale, non servono più a divertire, bensì hanno il compito (chissà perché) di sottolineare la limitatezza della condizione umana. È ufficiale, è entrato nella sua fase di pessimismo cosmico. Ed è pessimo segnale.
Perché tra infiniti silenzi e profondissime quieti, dopo aver toccato queste «immensità» leopardiane con il suo «pensiero», resterà solo «il naufragare». Che però non sarà dolce per nessuno.