La recente dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge polacca che consente alle donne di interrompere la gravidanza se il feto ha gravi malformazioni, obbligandole a partorire in ogni caso, è il risultato di un processo di demolizione dello Stato di diritto iniziato nel 2015.
In Polonia vige un regime semipresidenziale con legge elettorale di stampo maggioritario. Conquistare la maggioranza in Parlamento e riuscire ad imporre un proprio candidato alle elezioni presidenziali costituisce il presupposto necessario per prendersi il Paese. In un ordinamento a controllo costituzionale accentrato come la Polonia, però, non basta. Se vuoi davvero prenderti il Paese, devi abbattere il guardiano: il Tribunale costituzionale.
La Polonia è stato il primo dei Paesi dell’Europa centro-orientale ad istituire un organo incaricato del controllo di costituzionalità delle leggi. Purtroppo, l’istituzione del Tribunale costituzionale scontò una criticità comune anche ad altri sistemi (come quello americano): l’attribuzione della prerogativa di nomina dei giudici costituzionali interamente alla politica (un difetto che il sistema italiano non ha).
Nell’estate 2015 vinse le elezioni presidenziali il candidato del partito ultraconservatore e oltranzista Prawo i Sprawiedliwosc (“Libertà e Giustizia”) Andrzej Duda e nel successivo mese di ottobre il PiS conquistò anche la maggioranza del Parlamento. Il Presidente rifiutò di accettare il giuramento dei nuovi cinque giudici scelti dal Parlamento precedente prima della fine della legislatura e attese l’investitura di nuovi candidati da parte della nuova maggioranza.
Nei mesi successivi il nuovo Parlamento adottò una serie di leggi volte a compromettere il funzionamento del Tribunale costituzionale, come quella sull’innalzamento del quorum necessario da 9 a 13 giudici in alcuni procedimenti o quella che rimetteva l’azione disciplinare sui giudici al Parlamento. Molte di queste leggi costrinsero lo stesso Tribunale costituzionale ad intervenire per salvaguardare la propria indipendenza.
Nel 2016 l’assalto al guardiano costituzionale si intensificò con la nomina di altri tre giudici da parte della maggioranza del PiS (che poté così estendere la propria sfera di influenza a 8 giudici su 15) e con l’elezione della nuova presidentessa Julia Przyłębska, vicina al partito di maggioranza.
La neoeletta presidentessa, a seguito dell’avvio da parte del Ministro della Giustizia di una pretestuosa inchiesta contro tre giudici nominati prima dell’ascesa al potere del PiS, di fatto estromise dall’attività i tre colleghi, contribuendo a mantenere in maggioranza il numero dei giudici vicini all’esecutivo e alla maggioranza del PiS.
Sempre nel 2016, il Parlamento controllato dal PiS decretò che la carica di Procuratore generale dello Stato (la massima autorità della magistratura) venisse ricoperta dal Ministro della giustizia, sancendo così la fine del principio di separazione dei poteri.
Scontata e attesa, pertanto, la decisione del Tribunale costituzionale sull’aborto, una decisione la cui ratio è stata crudelmente spiegata dallo stesso leader del PiS Jarosław Kaczyński in un’intervista rilasciata nel 2016 all’agenzia di stampa Pap: «ci batteremo per assicurare che anche le gravidanze più difficili, nelle quali il bambino è condannato a morte sicura o ha gravi malformazioni, termineranno con la nascita. Così il bambino potrà essere battezzato e sepolto con un nome».
E l’Europa che dice di fronte a tanta violenza e a una simile demolizione dei principi dello Stato di diritto, a cominciare da quello di separazione dei poteri? Purtroppo l’Unione europea si trova in balia del c.d. “dilemma di Copenaghen”: il paradosso per cui, all’atto dell’adesione di un nuovo Paese, si pretende l’osservanza di una serie di condizioni in grado di assicurare la democrazia e lo Stato di diritto (condizioni fissate per la prima volta dal Consiglio europeo di Copenaghen nel 1993 proprio in vista dell’allargamento dell’Unione a Est e oggi sancite dall’art. 49 TUE che richiama i valori fondanti dell’art. 2), ma non si dispone poi di strumenti efficaci per prevenire ed affrontare le violazioni successive all’adesione. L’unico rimedio è previsto oggi dall’art. 7 TUE, che si articola in tre stadi:
a) Una prima procedura di allerta per rilevare un evidente rischio di violazione grave dei valori di cui all’art. 2 (democrazia, uguaglianza, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani e delle minoranze, pluralismo, non discriminazione, tolleranza, giustizia, solidarietà, parità tra donne e uomini);
b) Una vera e propria contestazione di violazioni gravi e persistenti di tali valori;
c) La comminazione di sanzioni consistenti nella sospensione di diritti derivanti allo Stato membro dall’applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto in seno al Consiglio.
Il problema è che per procedere con la misura di cui alla lett. b) è necessaria l’unanimità in seno al Consiglio degli Stati membri e tale misura preliminare è comunque condizione per eventuali sanzioni di cui alla lett.c). A causa del potere di veto esercitabile da ogni Stato membro in seno al Consiglio, non è quindi pensabile che l’Ue possa sanzionare la Polonia, che troverà sempre la solidarietà dei Paesi del blocco di Visegrad.
La Commissione, però, sta tentando di reagire a questa impasse. Dapprima ha istituito il Meccanismo per lo Stato di diritto, una procedura di dialogo annuale tra la Commissione, il Consiglio e il Parlamento europeo, insieme agli Stati membri, ai parlamenti nazionali, alla società civile e ad altre parti interessate, sullo Stato di diritto. La prima relazione sullo stato della rule of law nei Paesi membri è stata pubblicata nel mese di settembre 2020.
Nell’ambito del processo di formazione del nuovo Quadro finanziario pluriennale 2021-2027, nel maggio 2018 la Commissione ha inoltre presentato una proposta di Regolamento – COM(2018)324 – sulla tutela del bilancio dell’Unione in caso di carenze riguardanti lo Stato di diritto.
La normativa mirerebbe a introdurre un meccanismo fondato sulla irrogazione di sanzioni (tra cui la sospensione dei pagamenti e degli impegni a valere sul bilancio Ue, la riduzione dei finanziamenti nell’ambito degli accordi esistenti e il divieto di concludere nuovi impegni) nei confronti degli Stati membri in cui vengano riscontrate carenze generalizzate del principio dello Stato di diritto, che incidano o rischino di incidere sul principio di sana gestione finanziaria o sulla protezione degli interessi finanziari dell’Unione. La tutela del bilancio, pare purtroppo essere l’unica leva in grado di salvaguardare l’assetto democratico dell’Unione.