Il pensiero filosofico moderno nasce a Davos, in Svizzera, nella primavera del 1929. Per la precisione, quando al Grand Hotel Belvedere, si incontrarono (e scontrarono) i filosofi tedeschi Ernst Cassirer, che lascerà la Germania con il sorgere del nazismo, e il maestro dell’esistenzialismo Martin Heidegger, che invece resterà invischiato in rapporti ambigui con il Terzo Reich.
È in quel momento, nel quadro di una serie di importanti conferenze universitarie, che la filosofia affronta in modo netto il suo sofferto rapporto con le scienze esatte. Senza venirne a capo.
Come scrive lo studioso Wolfram Eilenberger in “Il tempo degli stregoni, 1919-1929. Le vite straordinarie di quattro filosofi e l’ultima rivoluzione del pensiero” (Feltrinelli), libro trattato in modo approfondito sul Financial Times, i due giganti del pensiero, anche se esprimevano due distinte visioni del mondo, condividevano le incertezze sorte dalla Prima Guerra Mondiale. Era crollato un mondo antico, trascinando con sé le sue arti e le sue scienze, ma non era ancora sorto quello nuovo.
Alla vigilia della crisi economica che avrebbe travolto l’America e poi a cascata gli altri Paesi, c’era però spazio per dibattere, con le montagne sullo sfondo, sul ruolo della filosofia in un universo dominato dalla scienza.
Che fare? I filosofi si erano radunati per un circolo di conferenze. Insieme ai due già citati, si sarebbe intravisto anche Rudolf Carnap, già a capo di uno sparuto gruppo di neopositivisti che avrebbe invocato la sostituzione della filosofia tradizionale con la logica scientifica, o Leo Strauss, che dalla sua formazione storica diffidava dall’idea di progresso e sposava al contrario una rivisitazione dei rapporti politici in una ottica machiavelliana (darà origine al neoconservatorismo americano).
Come si vede, già solo dalle presenze si possono intuire le parabole del pensiero dei decenni successivi. Ma anche dalle assenze: Eilenberger si diverte ad accostare a Cassirer e Heidegger anche altri due giganti dell’epoca, cioè Ludwig Wittgenstein, austriaco, e Walter Benjamin, tedesco, dilungandosi in interpretazioni interessanti (il fatto che almeno tre su quattro fossero figure famose e riverite, mentre Cassirer no e somigliava più a un burocrate del pensiero) e in conclusioni non sempre convincenti.
Ma torniamo alla questione principale, quella della primavera del 1929: per Heidegger il problema era che «dal 1850 tutto ciò che era conoscibile era diventato possesso delle scienze esatte», e questo avrebbe relegato la filosofia a un ruolo ancillare – prospettiva che mostrava di gradire poco.
Cassirer, al contrario, reggeva una visione ispirata a principi cosiddetti neo-kantiani. In poche parole, l’unico ruolo possibile per la filosofia sarebbe stato fornire una teoria della conoscenza scientifica, stabilendone limiti e processi. Una operazione che si basava sulle categorie concettuali insiste nel linguaggio. Ma – puntualizzava Heidegger – questa posizione avrebbe del tutto spinto a ignorare «la questione dell’Essere»: un conto è stabilire se un oggetto esiste o meno, un conto e comprendere il significato della sua esistenza.
Questa è, in soldoni, la natura del dibattito. Certo, capire il pensiero di Heidegger è reso complicato da un linguaggio poco accessibile, dal suo uso piuttosto scivoloso della metafora e dal richiamo a entità – l’Essere, appunto, ma anche l’Essere-nel-mondo o effettività – dalla comprensione non proprio immediata. Cassirer non è da meno, visto che parla di forme simboliche, in cui il simbolo non rappresenta «un rivestimento del pensiero, ma un suo organo necessario ed essenziale».
Resta il fatto che, assicura Eilenberger, i due filosofi esprimevano visioni del mondo diverse (in tutti i sensi: in quei giorni uno andrà a sciare, l’altro a visitare la residenza in cui era vissuto Friederich Nietzsche insieme a degli studenti) ma condividevano una convinzione: «La base della relazione dell’uomo con il mondo non deve essere appannaggio esclusivo delle scienze», diranno.
È su questo conflitto – o lotta per la sopravvivenza? – di forme e modi diversi di fare filosofia che coltiveranno le rispettive teorie, anche scontrandosi e contraddicendosi, con stili, idee ed espressioni del carattere differenti.