Joseph Schumpeter è il padre fondatore della teoria accademica sull’imprenditore. Quarantatré anni dopo una carriera di banchiere non proprio eccellente, iniziò la carriera accademica presso l’Università di Bonn e nel 1932, all’età di 49 anni, si trasferì negli Stati Uniti per continuare la carriera presso l’Università di Harvard. Fu ad Harvard che nel 1942 pubblicò il suo lavoro più importante Capitalismo, Socialismo e Democrazia, un’opera che diede vita al ruolo dell’imprenditore nella teoria economica, che prima di Schumpeter si basava solo sul capitale e sul lavoro.
Schumpeter definì così l’attività imprenditoriale:
La creazione di questa cosa nuova nell’economia non è un lavoro di routine, anzi per alcune caratteristiche peculiari è il suo opposto: rappresenta un compito particolare e ha tutte le particolari difficoltà e i rischi che sono adeguati ad ogni azione che non segue le tracce dell’esperienza testata dalla pratica; richiede altre qualità sia di intelletto che di volontà. Sono qualità rare e chi le ha, riesce ad essere il primo, o uno dei primi, a fare qualcosa di nuovo nell’economia nazionale, utilizzare un nuovo metodo di produzione, produrre e vendere un nuovo articolo, aprire un nuovo mercato, e inizialmente sfuggire alla pressione della concorrenza… L’essenza dell’imprenditore consiste nello svolgere la funzione di realizzare qualcosa di nuovo; il profitto che ne deriva è il reale profitto di questa funzione.
Fino ad oggi, la teoria classica di Schumpeter è stata seguita da moltitudini di accademici, ma c’è qualcosa di più:
È facile rendersi conto che oggi il possesso del capitale, anche se rende praticamente più facile ottenere e preservare il ruolo imprenditoriale, non è essenziale allo scopo. […] La funzione imprenditoriale è qualcosa di personale e non qualcosa che è collegato al possesso di una cosa, come è tipico della posizione del proprietario terriero. Se quindi la nostra teoria è corretta, la funzione dell’imprenditore non può, a lungo termine, essere esaurita all’interno della famiglia, e l’immagine popolare della dinastia industriale che domina da una posizione sicura finisce per essere quindi necessariamente falsa. E infatti, è una falsa immagine… i dati acquisiti finora confermano l’impressione espressa dal proverbio “tre generazioni dalla tuta alla tuta”. Se il possesso di capitale non è una condizione preliminare per esercitare il ruolo imprenditoriale, il fatto stesso di esercitarlo con successo porta comunque a possederlo.
Così, Schumpeter, mostro sacro della teoria economica e padre della teoria dell’imprenditore, riteneva che “la funzione dell’imprenditore non può, a lungo termine, esaurirsi all’interno della famiglia” ed egli stesso coniò il famoso proverbio delle tre generazioni. In parte si sbagliava.
Negli anni ’30, gli unici sistemi basati sulla famiglia erano rappresentati dalla monarchia o dai possidenti europei, il capitalismo era animato solo da grandi imprenditori ancora alla prima generazione.
Schumpeter non riusciva a capire come queste qualità eccezionali possano trasmettersi tra le generazioni: e la novità rispetto a ciò che l’accademico austriaco intuiva, è proprio la trasmissione di qualità inconsuete e non la trasmissione del capitale. Come afferma Schumpeter stesso: “La funzione imprenditoriale è qualcosa di individuale e non è collegata al possesso di una cosa [il capitale]”.
Pertanto, per essere un imprenditore, sono necessarie qualità non comuni: qualità specifiche della persona e che possono essere favorite e sviluppate e, anche se sono utili, non sono necessarie risorse finanziarie tipiche della famiglia e del capitalista.
Ecco cos’è la Famiglia Imprenditoriale: un’istituzione in cui i membri sono educati a essere imprenditori e dove i valori di responsabilità, spirito di iniziativa e generosità sono tenuti in grande considerazione. Peter Jaskiewicz conferma questa visione: “la nostra teoria è che l’attuale generazione imprima questa eredità sulla prossima, e questo motiva entrambe le generazioni a impegnarsi in tre attività chiave, vale a dire l’educazione strategica, il trasferimento imprenditoriale e la successione strategica, che danno origine all’imprenditorialità intergenerazionale”.
La Famiglia Imprenditoriale è composta da due elementi: persone con qualità di livello e l’azienda. La differenza tra il singolo imprenditore e la Famiglia Imprenditoriale risiede proprio nel decidere di sviluppare e consegnare all’interno della famiglia quelle qualità eccellenti che creano l’Essenza imprenditoriale.
Howard Stevenson ha incarnato un progresso importante nell’evoluzione accademica, dall’imprenditore eroe di Schumpeter all’imprenditorialità come modo di essere e di agire.
Stevenson non era un accademico del capitalismo familiare, ma ha introdotto un concetto fondamentale su cui esso si basa. Secondo Stevenson, essere un imprenditore è un modo di essere e di agire che può essere definito come il perseguimento di un’opportunità al di là delle risorse possedute. Questo modo di agire può essere applicato dall’“imprenditore eroe” di Schumpeter ma anche da un manager di una grande azienda, e soprattutto rende essere imprenditore una qualità – direbbe Schumpeter – che può essere trasferita e coltivata all’interno di una famiglia imprenditoriale.
Il messaggio chiave di Stevenson è scartare l’idea che l’imprenditorialità sia un tratto del tipo tutti-o-nessuno che alcune persone o organizzazioni possiedono e altre no. Pertanto, i manager, le organizzazioni, le imprese possono essere imprenditoriali in alcune circostanze o possono essere “non imprenditoriali”, cioè burocratiche o manageriali o amministratrici, in altre.
I due estremi del continuum tra imprenditoriale e “non imprenditoriale” sono definiti come segue: il tipo “promotore” di manager, che si sente sicuro delle proprie capacità di cogliere le opportunità. Questo manager si aspetta sorprese e si aspetta non solo di adattarsi al cambiamento, ma anche di capitalizzarlo e far accadere le cose.
Il tipo manageriale, che si sente minacciato dal cambiamento e dall’ignoto, e la cui inclinazione è quella di affidarsi allo status quo. Per il tipo manageriale, la prevedibilità favorisce una gestione efficace delle risorse esistenti, mentre l’imprevedibilità le mette in pericolo.
[…]
L’approccio imprenditoriale di Stevenson si basa sulle virtù rare di Schumpeter ed è il vero asset della famiglia imprenditoriale. Il capitale e il business possono essere utili, ma sono necessari soltanto virtù eccellenti e l’approccio imprenditoriale: ne consegue che la ricchezza di una famiglia non è nella ricchezza accumulata, quanto nella generazione di nuove competenze imprenditoriali all’interno della famiglia stessa.
Questo approccio comincia a essere sostenuto dalle migliori teorie accademiche recenti, Alfredo De Massis ha scritto:
I risultati di questa ricerca (a) suggeriscono che il coinvolgimento della famiglia non finisce con l’individuo; e, (b) a sostegno delle recenti evidenze teoriche sulla mancanza di coerenza nel tempo dell’influenza della famiglia sull’imprenditorialità dell’azienda, le dinamiche familiari sono evidenziate come la chiave per spiegare il rapporto causale tra il coinvolgimento familiare e il comportamento imprenditoriale dell’azienda.
La transizione è molto semplice: ogni buon imprenditore riconosce l’importanza dell’azienda, e se la famiglia è una famiglia imprenditoriale, ogni membro del gruppo, indipendentemente dal ruolo che ha, riconosce e rispetta la sua importanza.
Nella famiglia imprenditoriale nessuno accetterà mai che qualcosa venga tolto all’azienda per essere dato a un membro della famiglia. L’azienda, ben guidata, genera spontaneamente alcuni frutti, e questi sono disponibili per gli azionisti, membri della famiglia o meno, ma non è accettabile per gli azionisti dover separare rami o radici dall’albero.
Pensare in termini di transizione generazionale, inoltre, fa scendere una lacrima tra chi “dovendo lasciare” deve rassegnarsi a finire e chi “dovendo ricevere” deve dimostrarsi all’altezza del compito. È ricorrente usare staffetta e bastone come metafora: poche metafore sono così sbagliate. L’importante non è chi passa o chi riceve: l’importante è l’azienda. Non è una gara, la transizione non è definita da un momento o da uno spazio in pista, ma sopra ogni cosa, l’azienda deve evolversi nel tempo: per essere una buona metafora, il bastone alla fine della gara potrebbe essersi evoluto in un giavellotto o in un disco e l’attività potrebbe non esser più la gara.
La transizione generazionale non esiste, c’è la necessità di dare continuità all’azienda. La transizione è un momento di rottura, esattamente l’opposto della continuità. L’attenzione deve essere diretta a creare ciò che è necessario all’azienda per continuare la sua storia di successo, per andare incontro al futuro.
Tutti gli imprenditori dicono che l’azienda viene prima della famiglia, affermando implicitamente che la prima deve esser salvaguardata sopra ogni altra cosa. L’importante è vincere la guerra di Troia non travestire qualcuno come Achille che, come i grandi imprenditori, non può essere clonato.
La continuità aziendale ha bisogno di tre elementi che in un grande imprenditore si fondono: essenza imprenditoriale, capacità manageriali e solidità della partecipazione azionaria. È necessario ripensare questi tre elementi, meglio se non racchiusi in una sola persona, per garantire il proseguimento del successo dell’azienda di famiglia.
da “Il family business. Manuale di gestione delle imprese familiari”, a cura di Fabio Corsico, con Chiara Acciarini ed Enzo Peruffo, Luiss University Press, 2020