L’inizio è forte: «Mi chiamo Lily Allen e mi masturbo». Una definizione/confessione che la cantante inglese, il cui ultimo album del 2018 si intitola (in modo appropriato) “No Shame”, è diventata una sorta di battaglia ideologica. A metà tra il marketing e la promozione dell’empowerment femminile.
Intervistata per mezz’ora dalla presentatrice (e amica storica) Miquita Oliver, ha raccontato le sue difficoltà giovanili con il sesso – o meglio, con il piacere sessuale – e il lungo cammino, fatto di dubbi e autoconsapevolezza, che l’ha portata a trovare quello che, sostiene, per molti è una chimera: l’orgasmo. Anche grazie a un prodotto elettronico (non si citerà la marca) la cui promozione costituiva il senso di tutto l’incontro.
Sul punto ha ragione: sono argomenti seri, ma tabù. Per riflesso adolescenziale (quindi immaturo) se ne ride, sbagliando: «Il 35% delle donne», sostiene, «non si masturba. E non ne parlano nemmeno». Fatti privati, forse, ma lei (e molti insieme a lei) ci leggono riflessi più generali, sociali: un’antica ostilità nei confronti del piacere, «soprattutto femminile», che si nasconde sotto l’ombrello del riserbo, spesso della vergogna. Il risultato è un pudico silenzio.
«Uno degli errori è quello di inserirlo nella categoria “sesso”, che è più ampia e implica una relazione, un partner, la riproduzione». Sarebbe meglio collocarlo, suggerisce, «in quella del piacere», come il buon cibo e il buon vino.
E così Lily Allen diventa testimonial, oltre che di un apparecchio elettronico (ha prodotto una sua linea), anche dell’ultima (latest, not the last) battaglia per la liberazione sessuale. O, come dice lei, per il «sexual empowerment», formula che dimostra come il privato (anzi, privatissimo) possa sempre diventare politico. O qualcosa di simile.
Masturbarsi implica «una proprietà di se stessi e una responsabilità verso il proprio corpo e il proprio piacere», soprattutto, «vuol dire non doversi affidare agli altri per raggiungerlo» (come avviene nei rapporti sessuali).
Di sicuro, è qualcosa di cui non ci si deve vergognare, anzi, «se ne dovrebbe parlare anche nelle scuole». È una questione intima, personale, propria. Ma non per questo deve portarsi dietro uno stigma antico, un condizionamento che peggiora la vita di tutti.
Non si può dire che Lily Allen non sia coraggiosa. In un libro, in varie intervista, ha sollevato il problema e raccontato le sue debolezze, il suo “non riuscire” in un campo in cui è difficilissimo ammettere frustrazioni e disagi. Gliene va dato atto.
Colpisce, però, che quest’ultima (latest, appunto, not the last) battaglia di liberazione sessuale debba basarsi su una promozione pubblicitaria. Forse perché è furba, forse perché è lo spirito del tempo, o forse perché è quello, ormai, l’unico linguaggio possibile per dire l’indicibile oggi.