Il falso non è più un tabù. Anzi. Può diventare, per i musei, uno strumento per costruire una nuova relazione con il pubblico. Basata sulla fiducia. È lo spirito della mostra organizzata dal museo Ludwig a Colonia, specializzato – con oltre 600 opere – nell’arte dell’Avanguardia russa, il movimento radicale di inizio ’900. Di queste, almeno 100 sono dipinti. E dopo averne esaminati 49, ha scoperto che 22 sono, appunto, falsi.
Come è possibile? La collezione del museo nasce dalla passione del magnate del cioccolato Peter Ludwig e della moglie Irene, che nel corso degli anni ’70 del XX secolo hanno cercato, comprato e raccolto capolavori di quella corrente, la loro preferita. Purtroppo spesso venendo ingannati.
Del resto quella degli Avanguardisti russi è una delle correnti più falsificata di sempre: conosciuta, amata, copiata e quasi per niente controllata. Colpa del contesto storico, senza dubbio: essendo un movimento sorto insieme alla Rivoluzione comunista e all’instaurarsi dell’Unione Sovietica, ha pagato l’assenza di gallerie, conoscitori e mercanti. Nella confusione di quegli anni, molte opere poi sono scomparse nei musei e sono riapparse in case private. Di alcune si sono perse le tracce. Di altre ancora è impossibile verificare la provenienza, per non parlare di quelle che, di nascosto, sono state portate in Occidente superando la cortina di ferro. Di fronte a queste condizioni, il signor Ludwig poteva solo fidarsi. E sbagliare.
Nel 2010 l’immensa raccolta passa, con la morte della moglie, nelle mani del museo. Si tratta di opere di Nikolai Suetin, Ljubow Popova, Olga Rozanova. Ma anche di celebrità come Kazimir Malevic, Alezander Rodchenko e Natalia Goncharova. Tutte opere di estrema importanza.
«Eppure i numerosi riferimenti interni ad altre opere degli stessi autori mi hanno insospettito», ha spiegato alla Suddeutsche Zeitung la restauratrice, Petra Mandt. Ha fatto nuovi esami con raggi X, raggi ultravioletti e infrarossi, in più analisi chimiche dei componenti e addirittura la datazione del carbonio.
Si è scoperto così, per esempio, che “Paesaggio (Decomposizione delle forme)” di Olga Rozanova, comprato nel 1985, non solo somiglia molto a un altro esemplare custodito al museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, ma è anche falso. I pigmenti contengono un materiale che non esisteva nel 1913, anno della sua ipotetica creazione.
Il passo in più fatto dal museo è stato, a quel punto, creare la mostra. Il visitatore viene guidato con cartelli e spiegazioni, a notare somiglianze e differenze tra opere autentiche (prestate dai musei che le possiedono, come appunto quello di Madrid) e i falsi. Una disclosure, un atto di sincerità e un modo per creare più consapevolezza nel pubblico.
Non sono mancate le polemiche. La galleria svizzera Gmurzynska, da cui provengono alcune delle opere classificate come non autentiche, è subito andata all’attacco. Ha chiesto, prima ancora dell’inaugurazione della mostra, di poter visionare i risultati delle analisi. Non è stato possibile.
Durante la cerimonia, ha distribuito volantini in cui sostiene che le ricerche siano state condotte in modo superficiale e che, tutto sommato, il valore delle scoperte era trascurabile. Di sicuro – sostengono – è alto il danno reputazionale inflitto nei loro confronti
Quello che è certo è che, dal punto di vista giuridico, non ci sono grandi margini di azione: è impossibile dimostrare, anche per la distanza nel tempo, le eventuali intenzioni fraudolente da parte della galleria svizzera nel momento della vendita.
Al contrario, lo scenario più probabile è che si sia trattato di un commercio tra ingannati e ingannati. Cosa che, deduce il visitatore girando per le sale, può accadere molto più spesso di quanto non si creda.