Nella prima settimana vendette 345mila copie, si assicurò subito i primi posti nelle classifiche britanniche, lanciò tre singoli (anche quattro, volendo) che sono rimasti nella storia della musica. È “(What’s The Story) Morning Glory?”, il secondo album degli Oasis, uscito all’inizio di ottobre nel 1995 – 25 anni fa, un altro mondo – con cui la band inglese ottenne un successo planetario e si impose come capofila nel nuovo fenomeno del britpop.
C’era John Major, era già Cool Britannia: nello stesso anno era uscito “Alta Fedeltà” di Nick Hornby, sull’Independent partiva la rubrica sui “Diari di Bridget Jones”, al cinema uscita “Trainspotting”, mentre Eric Cantona occupava i tabloid con le sue follie.
Il mondo ricominciava a guardare verso Londra e il Regno, dimenticando per un attimo la guerra in Bosnia e le confessioni di Lady Diana, era catturato dallo scontro (gonfiato ad arte dalla stampa) tra gli Oasis e i Blur, cioè “la battaglia del britpop”.
Era la nuova edizione della rivalità Beatles/ Rolling Stones, la trasposizione della lotta di classe e di provincia tra i borghesi del sud e gli operai del Nord, ma anche tra due modi diversi di fare e cantare. Erano in gara per conquistare un posto – il primo – nelle classifiche inglesi. E forse anche nella storia.
Si sa come andò: in quella che fu l’estate più secca di sempre, il 20 agosto, vinsero i Blur. Il loro singolo “Country House” vendette 274mila copie, mentre “Roll With It” dei rivali arrivò solo a 216mila. Per i fratelli Gallagher sarà una beffa, ma temporanea: la storia darà ragione a loro, sotto forma di successo e vendite, che in occasione dell’uscita a ottobre di “(What’s The Story) Morning Glory?” arriveranno a travolgerli.
Pochi mesi dopo, nel 1996 si aggiudicano tre Brit Awards: miglior album, miglior canzone, miglior disco – durante la cerimonia si abbandonano a sberleffi e insulti, alimentando ancora le zuffe tra i due gruppi.
Ma la via è tracciata: hit come “Wanderwall” o “Champagne Supernova” diventano la colonna sonora del momento, accompagnano l’anno degli Europei (ospitati in Inghilterra) e celebrano il trionfo del soft power pop britannico – di cui Hugh Grant costituiva il corrispettivo oggettivo cinematografico, mentre gli altri pilastri erano Alexander McQueen e Damien Hirst.
In ”Hello”, la canzone con cui si apre l’album, cantavano «it’s never gonna be the same», ed è la verità. I dischi successivi non saranno allo stesso livello, i litigi tra i due fratelli diventeranno sempre più tempestosi fino alla definitiva (e più volte annunciata) fine della band, nel 2009. Gli anni sono caduti, insomma, «come fa la pioggia».
Se si applicasse anche qui il giochino “come è cominciato” e “come è finito” – altra moda social si spera di breve durata – si vedrebbe un salto dall’ampiezza quasi geologica. Era la Gran Bretagna di fine secolo, quella dei Labour guidati da Tony Blair, della Terza Via, dell’ottimismo efficiente. Irriconoscibile, rispetto a oggi: un Paese alla deriva, che ha sganciato gli ormeggi (con un referendum autolesionista) dall’Europa, in cui il Primo Ministro incarna un populismo d’élite allora impensabile. La pandemia e i suoi numeri ingestibili sono solo uno dei suoi effetti.
Non è più “Cool Britannia” da un pezzo: il gioco di parole, come è noto, era passato di moda quasi subito, ma adesso sembra appartenere alla preistoria. Il mondo guarda ancora a Londra, ma rimane stupefatto. Perfino le antiche e mediatizzate “battaglie del britpop” restano solo nella memoria degli storici della musica: da almeno 10 anni Noel Gallagher e Damon Albarn, la mente dei Blur, sono diventati amici e ogni tanto suonano insieme.
L’età porta giudizio, forse. E anche un po’ di nostalgia. Non per niente a fine aprile 2020 Noel Gallagher trova in soffitta una vecchia incisione, mai uscita prima, e la pubblica. È “Don’t stop…”. Il brano risale al 2005, quando forse era già tardi, visto che la musica che apriva il millennio era diversa, già un’altra cosa rispetto a quel muro delle meraviglie che impediva di vedere cosa sarebbe successo dopo.