Nel luglio del 2019 il senatore americano Josh Hawley, eletto nello Stato del Missouri pochi mesi prima, ha parlato alla National Conservatism Conference a Washington accusando le «élite cosmopolite di aver venduto la classe media e lavoratrice americana alle grandi multinazionali», e di aver favorito queste ultime incoraggiandole a «portare lavoro e ricchezza al di fuori degli Stati Uniti, dove ci sono salari e tasse più basse».
La dichiarazione di Hawley era un attacco diretto al cosmopolitismo, cioè la dottrina che «sostiene l’irrilevanza delle distinzioni sociali e politiche tra Stati e nazioni, e attribuisce a ciascun individuo la cittadinanza del mondo», secondo la definizione che ne dà la Treccani.
Per quel discorso Hawley è stato criticato da molti giornalisti e sui i social, bollato come «fascista» o come «fautore di un mondo arretrato».
Il cosmopolitismo non è nato negli ultimi anni, non è frutto della globalizzazione recente, né un costrutto del Novecento: ha le sue origini addirittura nella Grecia antica, viene ripreso e si sviluppa in nuove forme con l’Illuminismo e resta un tema di dibattito sempre più o meno vivo da lì in poi.
«Negli ultimi 20 o 30 anni l’ideologia politica del cosmopolitismo, che relega lo Stato nazione a una reliquia del passato, ha sbaragliato qualunque ideologia concorrente. Non è più un mero interesse di nicchia di accademici delle scienze umane, ma è riuscito a imporsi come sistema di valori dominante delle classi medie occidentali», scrive Aris Roussinos su UnHerd.
Nella sua analisi Roussinos ripercorre l’origine di questa nuova – relativamente – fase di egemonia del cosmopolitismo, i suoi sviluppi, e cerca di intuirne le contraddizioni e una possibile fine. Il punto di partenza dell’analisi è la sorprendente diffusione di questa visione del mondo nell’arco di una sola generazione.
Lo stesso termine “cosmopolitismo” è stato a lungo «una nozione che poche persone conoscevano o usavano al di fuori dei contesti accademici solo due decenni fa, poi è diventato l’orientamento normativo dominante delle élite e classi medie urbane istruite dell’Occidente: il sistema di idee di coloro che sostengono confini aperti, norme universali e autorità sovranazionali». Ma si è imposto di recente soprattutto «grazie al legame e all’associazione con uno stile di vita e uno status sociale molto alto», spiega Roussinos. Fattori che la rendono un’ideologia particolarmente solida in un’epoca in cui la pulsione capitalista spinge verso il costante miglioramento della propria condizione socioeconomica.
Nell’articolo, Roussinos corrobora la sua spiegazione con i testi di Karl Marx e la tesi del libro “The Struggle Over Borders” – pubblicato da un gruppo di politologi olandesi e tedeschi. Marx aveva criticato i tratti fondamentali del cosmopolitismo nel 1848: «Tutti i fenomeni distruttivi a cui dà luogo la concorrenza illimitata all’interno di un Paese sono riprodotti in proporzioni più grandi quando si arriva sul mercato mondiale, a punto che definire “fratellanza universale” lo sfruttamento cosmopolita è un’idea che potrebbe essere nascere soltanto nel cervello della borghesia».
Mentre dal libro “The Struggle Over Borders” riprende soprattutto questo passaggio che aiuta a comprendere fino a che livello si sia instillata l’ideologia cosmpolita in poco tempo nel mondo occidentale: «I cosmopoliti amano descrivere i loro oppositori non come rappresentanti di un’alternativa politica legittima, ma come sciovinisti di strette vedute ammaliati da demagoghi populisti». In buona sostanza è una visione unidirezionale in cui il cosmopolitismo non è solo un’ideologia politica, ma una sorta di destino morale del mondo: chi si oppone passa automaticamente dalla parte sbagliata della storia. Esattamente quel che è successo al senatore del Missouri Josh Hawley a luglio 2019.
Da quel che emerge dall’analisi di UnHerd, però, il cosmopolitismo contemporaneo non è privo di contraddizioni.
Si parte da una considerazione di base: «Il capitalismo nel mondo globalizzato – si legge – favorisce la formazione di una classe di persone transnazionale, dà potere ai leader di organismi sovranazionali e ai dirigenti di aziende globali, le grandi multinazionali; mentre i parlamenti eletti a livello nazionale e i movimenti locali perdono forza».
Non è solo un discorso di politica in senso stretto. Un esempio valido per capire questo aspetto della cultura cosmopolita starebbe «nella preferenza di tutto ciò che è esotico e diverso, innalzato così a gusto raffinato e illuminato». Mentre, al contrario, chi preferisce concentrarsi su qualcosa che riguarda il proprio territorio – quindi locale e tradizionale – è campanilistico, arretrato.
Fatta questa premessa si può inserire nel discorso la difficoltà della classe media degli ultimi anni: «Quest’ideologia, spesso associata a celebrità, a imprenditori d’affari internazionali e altri soggetti con uno status elevato ha reso questa visione del mondo molto glamour. Ma questa visione del mondo premia pochi eletti, favorisce a polarizzazione della ricchezza: il punto è che il cosmopolitismo non è proprio solo delle persone che se ne avvantaggiano, ma di una pluralità di persone della classe media che ambiscono a raggiungere quello status».
Allora la straordinaria diffusione del cosmopolitismo stride con il costante impoverimento della classe media occidentale in quello stesso periodo. E non solo: stride anche con la popolarità tra le fasce d’età più giovani, che provano a identificarsi con una classe sociale a cui probabilmente non appartengono. «La generazione dei millennial potrebbe non accedere mai allo status dei cittadini globali del jet-set, quello promesso dai profeti della globalizzazione. Almeno possono vantarsi di essere dalla parte giusta mentre competono per lo status e la loro sicurezza tra le macerie dell’economia mondiale», l’accusa di UnHerd.
Proprio qui risiede una possibile minaccia all’egemonia del cosmopolitismo: la contraddizione tra la venerazione di uno status sociale da parte della classe media e la simultanea erosione della sicurezza socioeconomica di quella stessa classe.
«A ogni storia di Instagram – si legge nell’articolo di UnHerd – e a ogni dichiarazione di Twitter sfacciatamente cosmopolita, del tutto assurda, fatta da ambiziosi ragazzi sempre meno borghesi, il valore del brand del cosmopolitismo diminuisce: se quel che dava valore allo status di una élite transnazionale viene costantemente associato a chi vive una condizione di precariato non invidiabile, presto o tardi arriveranno altri valori e altri indicatori a distanziare l’élite da tutti gli altri».